Recensioni


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Tina De Falco

Fondatrice dello Splash Museum e critica d’arte (Sassuolo, 2016)

Beatrice è un’artista che porta con sé un mondo di visioni che si posano tra l’illusione e la realtà, sa raccontare di un mondo interiore senza mai esasperare.
Pittrice e fotografa, artista completa che cerca nella scoperta della bellezza il fascino della semplicità. Le opere della Zagato sono elaborazioni di un pensiero che si poggia sull’ essenzialità della vita. Sanno dirci di sogni mai narrati eppure veri, non visti ma visibili se sappiamo guardare. Una rosa che si scompone fino ad essere solo pensiero, eppure ci sono stati infiniti scatti per raggiungere quel pensiero, quella voluta immagine. La sua pittura come pure la fotografia sanno di meticolosità di ricerca. Non uno sguardo qualsiasi a ciò che legge intorno a sé, ma una osservazione che si unisce a una   visione profonda del particolare.
L’artista usa una sua personale interpretazione della luce che sa mettere in evidenza sia nelle sue opere fotografiche sia nelle sue opere pittoriche. Una nuova ricerca visiva che va oltre la realtà offrendoci l’illusione di poterci distrarre e varcare la soglia dell’ignoto. Le sue tele sono fatti d’istanti selezionati che lasciano allo spettatore il compito di interpretarli attraverso l’immaginazione e il proprio stato d’animo.
L’arte della Zagato si confonde con la sua vita con il suo modo d’essere. Durante la sua permanenza allo Splash Museum di Sassuolo ha saputo coltivare l’attenzione di duecento bambini che ascoltavano i suoi racconti ponendole mille domande. Incantati dal suo saper giocare con i colori e le parole.
Un’artista che sa scoprire nell’arte anche il suo valore ludico è certamente un’artista che non solo vive per l’arte ma che fa della sua vita un’opera d’arte, e credo che Beatrice sia tutto questo.

Danilo Maestosi

Critico d’arte e giornalista del Messaggero (Roma, 2015)

Siamo ciò che vediamo, ma non vediamo più ciò che siamo. E’ la condizione umana nella quale il tempo che viviamo ci ha precipitati: i vuoti di senso del pensiero debole; l’eterno presente di Internet; la tempesta di informazioni e di immagini, reali o virtuali, che ci avvolge; gli orizzonti mutevoli e apparentemente ravvicinati del mondo globale; il potere traslocato dalla politica alla finanza; l’arte consegnata al mercato e confinata nel regno della superficie. Su questo scarto di messa a fuoco Beatrice Zagato ha costruito e sta costruendo la sua dimensione di artista.

Trentatreanni, origine padana, trapiantata a Barcellona dove ha frequentato per 4 anni l’Accademia di Belle Arti e dove condivide, come laboratorio con altri trenta giovani creativi della sua e di altre generazioni, un capannone industriale messo a disposizione dal Comune. Beatrice Zagato usa lo sguardo come strumento privilegiato d’esplorazione e d’introspezione nei territori della pittura e della fotografia che ha scelto e alterna come campi d’azione. Un andirivieni tra il dentro e il fuori che segue come una bussola le vibrazioni di un ordito musicale misterioso e trascinante che sente emanare dal vissuto, come una proprietà nascosta della Natura e delle cose, un travaso ininterrotto tra organico e inorganico. Un invito dionisiaco all’ascolto e alla danza che ridesta echi, sintonie, dissonanze interiori. Detta con il proprio ritmo l’impianto dei suoi quadri e dei suoi disegni. Mai veramente astratti, nonostante l’approccio ricordi vagamente quello di Kandinskj, con cui condivide a suo modo l’assonanza tra emozioni e colori. Beatrice Zagato non ha attitudini da Menade, l’ebrezza che prova e trasmette è sempre compensata da una vocazione più razionale, apollinea, che impone misura, dosaggio, ancoraggi. Può essere il titolo con cui battezza non a caso ogni opera, seguendo una forte vocazione al racconto, all’armonia della metrica anche quando compone versi liberi, senza rima: «Certezza» è il nome, emblematico e ambiguo con cui ha archiviato una serie di tele. Può essere il rimando voluto all’esterno: ha composto e firmato vari paesaggi, uno è un esplicito omaggio alle terre del Po da cui viene, una sinfonia di bianchi sporchi e ovattati ad evocare la nebbia che le avvolge. Se si addentra e ti attira nel labirinto, Beatrice Zagato non dimentica mai di srotolare un filo d’Arianna per il ritorno. É la sua cifra più personale questo attestarsi sui crinali fra visibile e invisibile e chiamare chi osserva le sue opere a fare liberamente altrettanto.
A una musica in sottotesto risponde anche la direzione, la coreografia dei segni che solcano, accarezzano, a volte violentano, quando ricorre a cuciture e all’innesto di chiodi, le sue tele: è pittrice veloce, preferisce il colore impresso a stampo al pennello, l’irruenza del gesto, l’intreccio ogni volta irripetibile tra caso e progetto, la intriga, ma non la trascina mai nei vortici dell’informale. Musicale il rapporto tra il vuoto e il pieno, tra profondità e superficie. Tra i tanti miraggi di cui lungo questa rotta Beatrice Zagato registra e suggerisce la malia e la vaghezza, il più ricorrente è quello della luce dispersa e irradiata nell’aria: per catturarne le sfumature, l’opacità, le trasparenze senza ricorrere a velature sfrutta il trasudo dei colori che applica sul retro della tela, il fuori diventa dentro.
Musicale, infine, il controcanto dei materiali diversi che la Zagato continua a sovrapporre, impastare e sperimentare convinta che nell’inerzia grezza di qualunque materia ci sia già l’anima della creazione che aspetta di prendere forma, quel presagio trasfigurante che Michelangelo confessava di avvertire di fronte ad un blocco di marmo. Una sfida alla terza dimensione che è entrata nel corredo genetico dell’arte contemporanea da Fontana in poi. E che Beatrice Zagato risolve con spirito d’alchimista e istinto da scultrice trasformando i suoi quadri in bassorilievi. A sbalzare lievemente la superficie sfrutta un campionario sorprendente di innesti e straniazioni mutanti: carta, plastica, strati di gesso, colle di preparazione, ritagli e collage, legni, chiodi, cuciture, strati di colore sottostante che emergono con raschietti e carta abrasiva. Un repertorio di tecniche con cui l’autrice si rivela e si nasconde allo stesso tempo. Come fa con le parole scritte, cui trascinata dalla sua voglia di dirsi non sa rinunciare: affiorano ovunque, caratteri e frasi in corsivo o stampatello, incisi a solchi sulle lavagne di colore o di gesso, o semicancellati da strati di colore, aggiungendo così ad ogni opera la profondità virtuale di un ipertesto. Le si può leggere quelle scritte come stralci di un discorso, di una poesia tirata fuori dal cassetto o come punti di fuga, brecce verso l’altrove.
A stupire e colpire in Beatrice Zagato è però soprattutto la duttilità e la capacita di penetrazione del suo sguardo. Una dote affinata da un difetto di vista che ha a poco a poco imparato a dominare, modificando il suo modo di definire e immaginare orizzonti e dettagli, come Leopardi davanti alla siepe dell’Infinito. Più difficile la messa a fuoco, più vivida la percezione dei colori e dei contrasti cromatici. La sua tavolozza prima asciugata all’osso, nero, grigio e pochi colori terrosi, si è accesa. Nelle sue opere è esploso il rosso e la voglia di usarlo, la superficie dei suoi quadri ha cominciato a far posto al blù cobalto e alle sfumature pastello. E il suo talento di fotografa ha preso ad intercettare in ogni inquadratura percezioni, soluzioni, intuizioni che prima stentavano ad emergere, nascoste nel gioco segreto delle ombre, delle rifrazioni, di un uso più passionale, intenso delle sfocature, delle traiettorie cromatiche disegnate dalla complicità tra le luci, il movimento e il buio. A Lampedusa, nel cuore lo sgomento per l’ennesimo naufragio di migranti, ha cominciato a sentire che per quei poveri annegati l’abbraccio del mare era la loro ultima spiaggia. Ha fissato su una luce in mare aperto l’obiettivo, regolato il grandangolo a intercettare i riflessi dei passanti sulla battigia e sulla banchina del porto. Clic. Poi, il mare si è trasformato nel mistero di un’incubatrice oleosa che partoriva fantasmi. Il sotto in sopra, il fuori in specchio del dentro, l’invisibile in visibile. In uno scatto il rito del fare arte. E con l’arte inseguire, scoprire, suggerire altre verità.

Barbara Codogno

Critica d’arte, curatrice e giornalista del Corriere della Sera | Veneto (Roma, 2014)

Beatrice Zagato è un’artista che vive la propria arte. O meglio, la sua arte è abitata dalla vita, sempre.
La vita ci conduce, ci trascina, ci sprofonda, ci esalta. Con amore e forza, con pene e lacrime. Rallentando, trattenendo e poi schiantando i cuori. E rabbuiando i pensieri e accecando la visione, quando non si può proprio sostenere lo sguardo. Per poi portarci verso cieli azzurri, laddove anche la pioggia è allegria. Così Beatrice vive, sogna e dipinge. Le sue opere non sono mai prevedibili, anzi, hanno l’incanto vero, il dono, il segno distintivo dell’arte. Perché dal particolare, la propria vita, l’autrice sa far emergere l’universale. L’opera della sua vita diventa opera d’arte. Per la nostra vita.
All’inizio della sua carriera di pittrice, i suoi lavori ci parlavano della storia degli uomini ma anche di quella delle cose.
Perché Zagato esordisce dominando la materia: le ampie stratificazioni equivalgono a grumi di significato, sono consistenze di pensiero. Nei primi lavori affiorano antiche sofferenze che Zagato amorevolmente ricuce, sutura, ricompone, usando un procedimento artistico medicamentoso. Allora, solo di fronte a quel vero di vita, senza alcuna vanità, interveniva con determinazione di bianchi – e Burri le sorrideva – gialli , rosa e marroni.
Ora, talmente alto vola il corpo della vita risanato che Zagato lascia la tela e sperimenta la trasparenza, l’effimero della carta. Così potente è ritornata la vita ad abitarla che le sue opere sono ora ancora più radicali.
Lasciato il pennello e la sfumatura del colore stratificato, ora solo i potentissimi colori primari.
Ora non sono più soltanto i pennelli, agisce la mano.
La mano che ha in sé la linea del destino. Il proprio. La mano che si costruisce il destino, lo forgia con coraggio, amore, disperazione, rabbia, fiducia, sollievo, speranza.
La mano che si posa lieve sulla carta, la mano che imprime un ritmo, la mano aperta pronta ad accogliere la verità. E la carezza.
La mano in trasparenza che crea mondi leggeri di farfalle e gocce di pioggia e voli di uccelli nel radioso meriggio e rose rosse, assetate di amore e vita. In questo riappropriarsi del gesto pittorico primigenio, si avverte uno spostamento che da concettuale (opere del primo periodo) si sta facendo fisico, organico; e non si esclude l’ipotesi che l’autrice sia sulle tracce di un figurativo che, c’è da giurarsi, sgorgherà sempre dalla sua personale e originalissima visione, dalla sua sincerità, sempre commovente. Vero dono.

Barbara Codogno

Bologna, 2014

L’opera di Beatrice Zagato colpisce per la sua profonda poeticità. “XII – I” è realizzata con tecnica mista su tavola. L’opera è divisa in due tavole di 94 x 107cm ciascuna. Alcune rose si tuffano di rosso e di bianco, su sfondo indistinto ma inciso. Profondamente segnato da antiche parole, quelle di Lewis Carrol: “Alice! Prendi questa storia / come se fosse anch’essa una bambina,/ e deponila là dove l’Infanzia / intreccia i sogni suoi entro l’ordito / della Memoria, come il fiore spento / che il pellegrino colse nelle lande di Tantotempofa”.
Eccoci ancora di fronte al grande lavorio emotivo e concettuale di Zagato. L’ordito della memoria crea tele di ragno, e tutto fa riaffiorare: ecco la vecchia storia di Alice. La storia che appartiene al mondo magico dell’infanzia. Ci sono le rose: erano state dimenticate e ormai sono appassite, spente… sepolte… annegate in inutili parole – le false promesse? – crocifisse da chiodi che sanciscono l’eternità del dolore. Ma anche l’eternità della favola, quella che torna sempre a farci sognare. Sono riemerse, sono tornate a galla, le rose. Come tornano a galla i ricordi. In questa dimensione di affioramento e sprofondamento c’è il gorgoglio del pensiero emotivo e creativo di Zagato, che oscilla e cuce insieme passato e futuro. Si intrecciano le rose, quelle bianche che la Regina voleva rosse e le rose appassite, grigie e nere; rose che si sono fatte spettri. Tempo lontano. Sono rose profumate di nostalgia quelle che dipinge Zagato e in un solo istante, quello del colpo d’occhio, riesce a farci vibrare l’anima, ci fa stare sospesi, in bilico sul precipizio.

Eppure, nonostante questa languida e struggente visione, Zagato è sempre pacificante. Cicatrizza le ferite dell’anima, salva il ricordo, perdona, assolve, purifica, è piena di compassione. Porre rimedio, però, è doloroso: bisogna inchiodare la rosa al legno. La mano deve essere ferma e lo slancio preciso perché il legno si apra e se lo mangi, il dolore.
I chiodi entrano in profondità nella carne viva della rosa e ne definiscono- così, nel dolore – il movimento dei petali.

Le linee bianche sono anch’esse tratto distintivo di Zagato: scandiscono il passare del tempo, sono i segni della memoria, la linea del pensiero e dei ricordi. Creano una uniformità di materia e colore con lo sfondo. E si intrecciano al sogno, proprio come recita Lewis Caroll nell’introduzione di Alice.
Zagato spiega: “L’opera ha delle scritte che sono incise nel legno e gioca con effetti di chiaroscuri e trasparenze, per creare un paesaggio. Questa parte è la parte degli arcani, e il paesaggio che rivelano è quello dell’io interiore… quel mondo che abbiamo dentro di noi, che riconosciamo come vagamente familiare, anche se non lo capiamo..come nel mondo di Alice!”. Un mondo interiore, quello di Zagato, che si esprime nella pittura con larga mano felice. Quella degli artisti veri, di Tantotempofa.

Barbara Codogno

Padova, 2013

Le opere di Beatrice Zagato parlano della storia degli uomini ma anche di quella delle cose. Zagato domina la materia: le sue stratificazioni ricordano l’intreccio della memoria. Salgono in superficie grumi di significato, consistenze di pensiero. A volte il passato squarcia la tela: affiorano antiche sofferenze che Zagato amorevolmente ricuce, sutura, ricompone. Il suo procedimento artistico è medicamentoso. Allo stesso tempo ardito, impietoso. L’approccio alla tela sempre frontale, perentorio, assertivo: una tela non è che una tela, così Zagato la pulisce, toglie, strofina, scarta, dribbla e poi ritorna al materiale grezzo, senza orpelli, senza inganni. Non cerca mai una zona franca. Allora, solo di fronte a quel vero, ma che non cede alla lusinga del dolore, interviene con determinazione di bianchi – e Burri le sorride – gialli, rosa e marroni. Il colore è verità, è sostanza nel nome; e non mente.

Come un’onda di colore – il mare è elemento spesso evocato, della sua potenza immaginifica Zagato racconta con i pesci opalescenti come fossili o guizzanti d’oro – la materia si sovrappone e si piega, e si srotola in colla e carta e ancora spago e legno e chiodi e argenti e oro.
Segni nitidi senza alcun pretesto, solo l’urgenza della scarcerazione, perché il dolore lascerebbe delle tracce, ferite aperte e lacrime stagnanti.

Con gesti semplici e decisi Zagato medica, cicatrizza l’urlo e lo inchioda – con Certezza – che non possa scivolare fuori: il suo tempo è già stato, ora v’è quello della cura. Scacciato il chiodo, crocifisso il verbo, incollata la parola, la tela ora è di nuovo corpo vivo e ha la sua storia; e ha la sua memoria. Il processo creativo di Zagato è taumaturgico: la pittrice risarcisce, rianima, rifonde di vita il dolore, la paralisi. Il soffrire ha lasciato il suo segno ma è diventato canto.

Estremamente interessanti questi lavori di Zagato, struggenti e poetici questi suoi componimenti medicamentosi.
E anche quando Zagato si confronta con il figurativo – sulla soglia di un recente processo di sperimentazione – l’approccio alla tela non è mai scontato: perché la tela volteggia, s’invola, s’alza, s’impenna e poi raccoglie il segno nella figura appena tratteggiata. Ritorna anche in questo approccio più formale il bisogno di togliere, pulire, decantare e poi, unguento lenitivo, ritrovare la verità della figura con sincerità commovente e disarmante.

Flavio Zanonato

Sindaco di Padova e Ministro dello Sviluppo Economico (Padova, 2013)

Beatrice Zagato è una giovane artista padovana che vive da alcuni anni a Barcellona. Lì ha conseguito il diploma in Arti applicate presso l’Escola d’Art Massana; lì ha aperto il suo atelier artistico nel 2010.
Questa mostra presso le Scuderie di Palazzo Moroni, la prima in uno spazio pubblico nella sua città, assume così, in un certo senso, anche il valore di un ritorno a casa. Le auguriamo positivi riscontri per questo importante evento, e soprattutto per la sua futura attività artistica.

Andrea Colasio

Assessore alla Cultura | Comune di Padova (Padova, 2013)

Torna a Padova con una personale che è insieme una raffinata sintesi del suo percorso artistico e la proiezione verso i nuovi terreni sperimentali e di ricerca indagati dall’artista. “I colori usati in questi miei lavori mi ricordano quelli della pianura padana, a cui sono molto legata” racconta Zagato che così descrive l’esposizione che si terrà alle Scuderie di Palazzo Moroni, ribadendo un forte attaccamento alla sue radici padovane. Between the lines è uno spazio della memoria, in cui l’immagine raffigurata non è che una superficie apparente di quello che, guardando oltre, si riesce ad intravvedere. Tutto ciò che noi vediamo viene filtrato dalla memoria divenendo un ricordo inconscio. E tutto ciò che noi viviamo viene forgiato su di noi come linee impercettibili che una dopo l’altra incidono la nostra persona, modellandola. Nulla viene perduto.