COLLANA /
SAPERE L’EUROPA, SAPERE D’EUROPA /
CULTURAL HERITAGE. SCENARIOS
2015-2017
EDIZIONI
CA’ FOSCARI
UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI VENEZIA
MiBACT: Regole pratiche per ritrovare il buonsenso!
1. Perché intervenire_ Quadro attuale: inefficienza Mibact. Molti interventi strutturali e poche risposte pratiche. Molteplicità di prassi amministrative 2. Come intervenire_ Perseguire l’efficienza attraverso la ragionevolezza, ‘ex ante ed ex post’. Individuazione preliminare delle “buone” patiche amministrative 3. Dove iniziare_ Uniformità di valutazione (piano procedimentale) 4. Sindacato debole del G.A. e CTU (piano processuale) 5. Prima di iniziare: stabilire le priorità e acquisire dati concreti. Esempi pratici.
B. Zagato, P. Carbone
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“_ Ho capito, _ disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito _ Ho capito. _ […] Cosi dicendo, s’alzò dal suo seggiolone e cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio” 1.
1. È il 1628 raccontato da Manzoni per descrivere il suo secolo, eppure quel “signor dottor […] Azzecca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così’!) 2” che immerge le mani tra le grida per estrarre dal cappello la sua ultima prodezza, è la prima immagine che viene a mente più ci si addentra, con l’intento di trovare un po’ di chiarezza, nell’oceano di disposizioni normative che (soprattutto3) dal ‘75 in poi, sono state emanate per disciplinare la delicata materia della gestione dei beni culturali in Italia. E a non volere essere ingiusti né imprecisi col passato, a malincuore si deve anche rilevare che gli intervalli di bonaccia sembrano diradare mano a mano che ci si avvicina al momento attuale. Basta, infatti, aprire un qualsiasi manuale aggiornato di Diritto dei beni culturali o, per i più audaci, navigare sul sito del MiBACT, per rendersi conto del diluvio legislativo che continua a interessare tutti i soggetti che operano nell’ambito dei beni culturali, con l’inevitabile effetto di creare un’organizzazione burocratica sempre più lenta e macchinosa che, come fu per Renzo e Lucia, diventa progressivamente incapace di garantire ai cittadini la protezione dei propri interessi e diritti, oggi, riconosciuti a livello costituzionale. Non a torto, quindi, in uno di questi manuali datato 2013, ed in riferimento evidentemente alle allora ultime modifiche legislative, si legge che “il passare del tempo, breve ma inesorabile, segna per il Ministero dei beni e delle attività culturali l’acutizzarsi di una sorta di schizofrenia interventista da parte del legislatore che al ritmo di un biennio alla volta tenta di risolvere la questione culturale del nostro Paese con l’ennesima riforma della struttura ministeriale”,4 prognosi quanto mai esatta e confermata dal recentissimo D.M. n. 44/2016 volto alla “riorganizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, alla riorganizzazione, anche mediante soppressione, fusione o accorpamento, degli uffici dirigenziali, anche di livello generale, del Ministero”, che si sostituisce alla precedente riorganizzazione del D.P.C.M. n. 171/2014.
Analizzare il nuovo assetto, le competenze e le funzioni di ciascun organismo ascritto alla struttura organizzativa del MiBACT, non è scopo di questo scritto, non solo per l’ovvio motivo che vuole essere un articolo e non l’opera magna del suo autore, ma anche perché chi scrive non ne coglie completamente l’utilità pratica: i testi normativi delle innumerevoli riforme di tale dicastero paiono essere legati dal comune denominatore secondo cui i rispettivi redattori istituiscono/ eliminano/ ripristinano enti; trasferiscono e (ri)defininiscono ruoli e competenze di ognuno di essi; stabilendo, quindi, con fare zelante il ‘chi’ e ‘cosa’ dell’azione amministrativa sui beni culturali, senza, però, necessariamente verificare il ‘come’. Spesso, infatti, in sede applicativa rimane poco chiaro come svolgere determinati compiti dal momento che l’apparato adibito ex lege ad una certa funzione, di fatto, non è in grado di realizzarla (o perché la struttura è inidonea; o perché vi è duplicazione di competenze tra organi amministrativi e non si specifica fin dove deve arrivare l’azione dell’uno e iniziare quella dell’altro; o perché servono competenze tecnico-scientifiche che, per composizione del personale, non sono soddisfatte; o perché le tempistiche richieste dalla legge per realizzare una certa funzione sono incompatibili col numero di passaggi burocratici che quel tipo di struttura esige; o perché alla riforma ‘dichiarata’ non fa seguito, tempestivamente, un regolamento di organizzazione; etc).
A che pro, quindi, descrivere la struttura del Ministero, confrontando le disposizioni normative succedutesi nel tempo e sforzandosi di capire cosa sulla carta intende resistere al nuovo, se ciò non basta a togliere l’incertezza che, nella loro applicazione pratica, esse generano in alcuni campi d’azione delle P.A.? Un organigramma completo del MiBACT si reperisce facilmente sul sito dedicato. Quello che manca sono le risposte, concrete e chiare, sul suo funzionamento. E senza di esse qualsiasi riforma, anche quando mossa dalle migliori intenzioni del legislatore, sarà sempre, solo un rimescolamento e non una reale, efficiente riorganizzazione!5 Questo perché la P.A. deve sì raggiungere i risultati programmati, ma il legislatore nel prefissarli deve, a monte, accertarsi che il procedimento e la struttura di cui la dota siano in grado di poterlo fare. Cos’altro, altrimenti, si intende per efficacia da perseguire ex artt. 97 Cost. e 1/1 L. 241/1990 ?
Diversamente, ove il legislatore non verifichi quanto appena detto, la conseguenza è assai ovvia: posto che la P.A. deve dare risposte (adottare un provvedimento), tutte le volte, in tutti i singoli passaggi di un procedimento, in cui il legislatore non ha chiarito come fare, lo dovrà decidere lei da sola. Ecco perché, contrariamente a qualsiasi logica di buonsenso o efficienza, nei fatti può accadere che nelle singole strutture di ramificazione dell’intero apparato burocratico, si creino prassi diverse per arrivare ad emettere un medesimo (in quanto prescritto, esso sì, in maniera uniforme dalla legge) provvedimento amministrativo. Ed ecco perché, nei fatti, non è scontato che la stessa domanda, rivolta ad Uffici amministrativi territorialmente diversi, ma corrispondenti, ottenga identica risposta!
Viste le premesse, d’altronde, potrebbe la P.A. agire diversamente? E il singolo privato, cos’altro dovrebbe fare se non sperare nel di lei buon senso?
Altro dato comune ai vari interventi del legislatore è la finalità che lo muove, ovvero snellire l’articolazione organizzativa per renderne più efficiente l’operato, anche e soprattutto, in termini di contenimento della spesa pubblica. Tradotto concretamente, ciò significa creare una struttura burocratica che costi meno allo Stato, in relazione alla durevolezza dell’ azione di essa nel tempo, e senza che dall’attuazione della sua riorganizzazione (oggi, nel 2014, 2013, 2009, etc.: termine puntuale) derivino “nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” (ex art. 1 legge di stabilità n. 208/2016, come, giustamente, richiamato nell’ultimo D.M. n. 44/2016): diversamente, infatti, il soddisfacimento della prima condizione senza la seconda (o viceversa), finirebbe col negare la sua intima ragion d’essere; e senza voler scomodare la Metafisica aristotelica, ci si chiede come altrimenti tali riforme potrebbero essere in linea con i principi di spending review tanto addotti a bontà dell’adozione delle stesse.
Ora, pur non essendo economisti o giuristi, confrontando numeri e date dall’elenco di disposizioni (nemmeno esaustivo) riportato in nota 5, la domanda nasce spontanea: è umanamente possibile credere di ottenere un recupero di risorse finanziarie attuando, per l’ennesima volta, una ristrutturazione ministeriale, quando ancora è in corso quella precedente? Raggiungere in questo modo un’effettiva semplificazione e celerità dell’azione amministrativa? Renderla economica ed efficace? Se le stesse azioni, nel passato, non hanno avuto effetti migliorativi, non si può solo prendere in considerazione il fatto che ciò non dipenda dall’incapacità dei propri predecessori, ma dalla saturazione normativa e strutturale che ormai qualsiasi riforma del MiBACT va ad accrescere?
Forse, bisogna cambiare il punto di partenza e, forse, è necessario fare un passo indietro.
2. Al di sopra dei criteri fondamentali, riportati nella L. n. 241/1990, che guidano l’azione amministrativa e su cui, per questo, qualsiasi disposizione legislativa in materia deve essere modellata, ve n’è uno, amato probabilmente da chiunque ami il diritto, che pur non essendo codificato esplicitamente in alcuna norma costituzionale, permea di sé l’intero ordinamento giuridico e veglia sulla sua coerenza: è il principio di ragionevolezza6. In base ad esso, la Corte Costituzionale ci ricorda che la forza della legge non deriva solo dall’autorità di chi la emana ma dalla ‘bontà’ di ciò che prescrive. “La verifica della ragionevolezza di una legge [infatti] comporta l’indagine sui suoi presupposti di fatto, la valutazione della congruenza tra mezzi e fini, l’accertamento degli stessi fini; a tal fine si ricorre spesso ai lavori preparatori della legge, alle circolari ministeriali esplicative, ai precedenti storici dell’istituto”7. E ciò che la pone al vertice di chiusura del sistema è il suo carattere eminentemente pratico, che la contraddistingue dalla razionalità astratta su cui invece orbitano il criterio analogico e sistematico, e che le impone una valutazione fattuale in termini di risultati e conseguenze prodotti dalla legge8.
Se in ultima analisi, quindi, sarà un controllo pratico sulla norma a sancirne la legittimità, perché un simile approccio pratico non lo tiene anche il legislatore ex ante, in sede di formulazione della proposta legislativa?
Perché non viene, ad esempio, effettuata un’indagine conoscitiva preliminare, esaustiva e generale su tutto il territorio nazionale, avente ad oggetto le “buone pratiche” (di cui detto sopra), già in atto presso le amministrazioni regionali e statali al fine di individuare, quali tra esse effettivamente ‘funzionino’, valutando sulla base di dati certi? Senza la loro acquisizione, il legislatore, dal vertice della piramide, come decide cosa sia meglio porre a fondamento di quelle norme attuative che, ora, la dottrina e gli operatori, tenuti a rispettarle, denunciano essere lacunose o assenti?
L’amministrazione pubblica è un’amministrazione essenzialmente locale9, in quanto si presuppone che la struttura burocratica immediatamente più vicina ai cittadini sia quella che meglio e più rapidamente calzi alle loro necessità. Questo è l’assioma sancito dalla riforma Costituzionale al Titolo V ex L. n. 3/2001 e dal principio di sussidiarietà e decentramento, attraverso cui si ripartono le attribuzioni delle funzioni amministrative tra i vari enti locali e statali, che ha ispirato molti degli interventi legislativi (anche) in materia di beni culturali. Per cui, se per chiudere il cerchio e avere l’efficienza del sistema, è a livello locale che io devo incidere ed arrivare, vorrà dire che qualsiasi modifica presa dall’alto deve essere valutata in primis conoscendo molto bene il modus operandi concreto adottato a livello locale, e sulla base di esso, poi, ragionare ‘a ritroso’ fino al sistema centrale, per capire cosa sia necessario cambiare. Viceversa, il ragionamento di senso opposto, dal centrale al locale, continuerà probabilmente a produrre nuovi rimestamenti di strutture senza approdare ad un reale snellimento di passaggi, lasciando che le risposte pratiche ai problemi arrivino dai regolamenti di attuazione, se e quando pervenuti, e dalle singole P.A. locali, se e come meglio riterranno procedere.
Davvero così irrilevante ai fini dell’adozione della L. n.125/2015, sarebbe risultato il dato oggettivo che nel solo anno 2015 l’ufficio Sovrintendenza Beni Librari Regione Veneto riusciva a portare a termine (e nei termini) ben 368910 esportazioni definitive? Non sarebbe stato più utile richiedere tali informazioni prima, e non dopo, la promulgazione della suddetta legge e capire come in altre regioni i corrispondenti uffici registravano cifre abissalmente inferiori? Senza tale quadro generale e preventivo, come decidere se la riassunzione, dal lontano ’72, della tutela dei beni librari da parte dello Stato fosse la scelta più opportuna rispetto, per esempio, al metter mano e ridefinire (invece!) criteri, indirizzi e protocolli di procedura non più affrontati organicamente da quasi mezzo secolo11?
3. Insieme ai beni librari, infatti, in generale tutto l’impianto di tutela dei beni culturali del Codice Urbani si regge sulla nozione di interesse culturale: semplice (ex art. 10/1), per i beni di proprietà Statale o altro ente pubblico; particolarmente/ eccezionalmente importante (ex art. 10/3), per i beni di proprietà privata. Il Codice stabilisce che ove gli uffici pubblici competenti accertino/verifichino la presenza di tale interesse sul bene, si applica la disciplina codicistica e, al fine di evitare differenze di trattamento sul territorio nazionale (ergo “sottrare al mero arbitrio degli uffici”12 una decisione implicante, come ben noto, fortissime limitazioni all’esercizio pieno e assoluto della proprietà privata, quando ha ad oggetto una res privata), il Ministero detta degli “indirizzi di carattere generale”, cui tali uffici devono rifarsi, assicurando l’”uniformità di valutazione” (ex art. 12/2). Anche l’art. 68/4 (fonte di innumerevoli liti giudiziarie e attacchi agli Uffici esportazione) nel regolamentare il procedimento (ad istanza di parete) di rilascio o rifiuto dell’”attestato di libera circolazione”, stabilisce che “[…] gli uffici di esportazione si attengono a indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero, sentito il competente organo consultivo”. Identico richiamo agli artt. 4/1; 29/5; 71/4; 72/4 del Codice.
Nel disegno del legislatore, quindi, l’auspicata uniformità dell’azione amministrativa diventa garanzia di efficienza, equità e trasparenza; per questo viene posta a fondamento dei principali provvedimenti di circolazione e conservazione del bene culturale. Eppure, in tutta la pioggia di riforme adottate dalla sua nascita, né il MiBAC, né il MiBACT hanno mai fissato i parametri richiesti dalla norma. L’unico dato positivo a cui giurisprudenza13, dottrina ed operatori vari fanno riferimento è un’antica circolare 13 maggio 1974 emessa dall’allora Ministero della Pubblica Istruzione.
Di fronte alla Fontaine di Duchamp, al Felt Suit di Beuys, ai lavori immateriali di Klein, alla serialità delle opere prodotte dalla Factory di Warhol e, restando in Italia, alla Merda d’artista di Manzoni, ai neon di Merz, ai Concetti spaziali di Fontana (eccetera, eccetera, eccetera!), si ammetterà però che il riferimento alla loro “particolare nobiltà della qualità artistica”, “raritá“, “originali qualità tecniche” di cui parla la circolare del ‘74 risulta alquanto generico e vago14; id est, inutile per il funzionario chiamato a prendere una decisione, quanto fuorviante ai fini dell’ uniformità di valutazione sul territorio nazionale.
Considerato, quindi, che l’arte ha fatto a tempo a diventare immateriale, l’Italia a entrare nell’ Unione Europea, la Gran Bretagna a uscirvi, non sarebbe prioritario metter mano alla circolare del ’74?
4. In seconda battuta, si rileva come l’assenza di uniformità di valutazione ha contribuito a creare una sorta di ‘zona franca’ in campo processuale15 dove, sotto l’egida della discrezionalità tecnica (e quindi al riparo dal sindacato intrinseco del giudice amministrativo16), viene considerato, ai fini della tutela, il solo interesse culturale ex art. 9 Cost., senza alcuna forma di comparazione eterogena. Con l’inevitabile conseguenza che la posizione del singolo proprietario del bene culturale viene a degradare da diritto soggettivo pieno a mero interesse legittimo alla legittimità dell’azione amministrativa17.
Proprio con particolare riguardo all’adozione degli atti di individuazione dei beni culturali, il MiBAC pro tempore, con nota prot. n. 24516 del 28 settembre 2005 (richiamata anche nella più recente circolare MiBACT prot. n. 19 del 30 luglio 2015), ha espressamente escluso che gli uffici, chiamati a rendere una valutazione ‘tecnica’ sull’interesse culturale presente nella res oggetto di verifica, possano indugiare in apprezzamenti di discrezionalità amministrativa, coinvolgenti la ponderazione fra interessi pubblici o fra interessi pubblici e privati, al fine di decidere quale fra essi debba prevalere nella fattispecie concreta. Ciò in quanto – si legge nell’atto di indirizzo citato – “la scelta di prevalenza dell’interesse culturale è stata già compiuta una volta per tutte in apicibus dall’art. 9, secondo comma, Cost. e dalle norme di legge ordinaria interposte (dal testo unico del 1999 al codice del 2004, entrambi sotto questi profili sostanzialmente confermativi dell’impostazione della storica legge “Bottai” n. 1089 del 1939)”18.
Tale impostazione ha fatto sì che, in forza della sostanziale insindacabilità dell’attività amministrativa sui vincoli culturali19, “autentici capolavori dell’ Arte Italiana ottengono l’attestato di libera circolazione, magari per finire in importantissimi Musei stranieri; opere di dubbia qualità, di riconosciuta ripetitività, di modesta ed artigianale fattura, sono viceversa vincolate, magari con il vincolo di indivisibilità (il più rigoroso esistente in Italia), in assoluta incoerenza con l’ inconsueto liberismo che ha animato l’ Ufficio nell’esame di veri capisaldi dell’ Arte Italiana”20.
A ben vedere, però, l’evoluzione normativa degli ultimi quarant’anni imporrebbe, un ripensamento circa la natura e la portata dei poteri tutori del MiBACT. Alla remota circolare del 1974 hanno fatto seguito, in ordine temporale, la L. n. 241/1990 e ss.mm.ii., che configura il procedimento amministrativo come la sede privilegiata ove accertare, ponderare e valutare tutti gli elementi di fatto e di diritto nonché i diversi interessi (pubblici e privati) coinvolti nell’azione amministrativa; il T.U. n. 490/99 ed il Codice Urbani del 2004. Segnatamente, gli artt. 14,19, 22, 28, 33, 46, 68, 70 e 71 del D. Lgs. n. 42/2004 ricalcano la disciplina generale sul procedimento amministrativo, con la previsione dell’obbligo di comunicazione, agli interessati, dell’avvio del procedimento afferente la declaratoria di culturalità del bene e dei motivi di rigetto dell’istanza (di rilascio dell’attestato di libera circolazione), “per l’evidente opportunità, anche sotto il profilo dell’economicità, di anticipare alla fase procedimentale il confronto, normalmente tipico nel momento processuale, tra le valutazioni dell’amministrazione e le considerazioni dell’interessato in merito ai connotati del bene21”.
A differenza del regime in vigore sotto la Legge Bottai, il privato proprietario del bene culturale ha oggi la possibilità di interloquire alla pari con la P.A., attraverso la produzione di memorie e/o documenti endoprocedimentali.
Come si può, allora, in tale rinnovato contesto normativo, postulare l’assoluta irrilevanza, a priori, di ogni interesse diverso da quello primario? Non sarebbe, viceversa, più corretto (ed in sintonia con il dato positivo) riconoscere che, nella materia de qua, ai tradizionali criteri di discrezionalità tecnica si sono venuti aggiungendo, per effetto dei noti principi partecipativi della L. n. 241/90, anche ineludibili – e non meno pregnanti – momenti di discrezionalità amministrativa, volti al bilanciamento degli interessi pubblici e privati coinvolti nei procedimenti di dichiarazione, previsti dalla lex specialis22?
In questa mutata prospettiva, la circolabilità di un bene culturale, al pari della sua notifica si appalesano come il frutto di un’operazione complessa, in cui la discrezionalità tecnica (condotta sul bene per intercettarne l’interesse di tipo artistico, storico, archeologico, etnografico, bibliografico, etc.) è indissolubilmente legata alla discrezionalità amministrativa (coincidente con la comparazione di interessi), giacché implica, di necessità, un giudizio di meritevolezza del bene alla tutela, e quindi una sostanziale “scelta di politica culturale”23.
Se è vero, infatti, che il secondo comma dell’art. 9 Cost. (“La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione”) non deve essere letto separatamente dal primo (per il quale, fine della tutela e compito fondamentale della Repubblica è “lo sviluppo della cultura”), bensì in naturale e necessario collegamento con esso, è altrettanto vero che l’Amministrazione dei beni culturali, nell’esercizio dei suoi poteri di vincolo, dovrebbe tener conto non solo dell’interesse culturale ravvisato nel bene, ma anche dell’interesse del privato titolare del medesimo bene e dei restanti interessi pubblici, in potenziale contrasto con quello primario di cui è titolare il MiBACT (tutti adeguatamente rappresentati in sede procedimentale). In quest’ottica, il principio di proporzionalità, illuminato ed arricchito dalle discipline specialistiche del caso concreto, assurgerebbe a limite fondamentale della libertà di cui dispone la P.A. nel decretare il pregio culturale della res, consentendo, così, di adeguare la misura amministrativa alle peculiarità della fattispecie con il minor sacrificio possibile degli altri interessi confliggenti, pubblici o privati24.
Del resto, ritenere la regola tecnica in grado di fornire risultati univoci (e quindi interamente vincolanti un’attività) è assunto in linea di massima non condivisibile, posto che ogni giudizio sulla culturalità del bene difetta comunque di quella dose di certezza che dovrebbe caratterizzare le discipline tecnico-scientifiche, connotandosi, anzi, di un ineliminabile tasso di soggettività25. Invero, gli accertamenti tecnico-scientifici, afferenti ai beni culturali, per il continuo evolversi delle relative discipline e per una fisiologica relatività che li caratterizza, possono fornire soluzioni non ‘certe’, ma tutt’al più ‘attendibili’. Ne deriva che, per una maggior tutela del privato inciso dal fatto culturale naturaliter incerto, essi non dovrebbero ritenersi sottratti al sindacato intrinseco “debole” del giudice amministrativo26.
Con ciò non si vuol sostenere che il giudice, bypassando il basilare principio di separazione delle funzioni, possa ripetere il giudizio di valore effettuato dall’Amministrazione (con poteri sostitutivi, inammissibili nell’ambito della giurisdizione esclusiva di legittimità). Più semplicemente, egli può accertare la materiale esistenza del fatto culturale, presupposto dell’atto impugnato, e con essa la diligenza impiegata, utilizzando le regole tecniche impiegate nello svolgimento dell’attività istruttoria. Può, in altri termini, verificare il rispetto della regola tecnica adoperata, spingendosi fino all’”annullamento del relativo esito valutativo, qualora risulti che il risultato raggiunto dall’Amministrazione, a prescindere dalla sua fisiologica opinabilità, fuoriesce dai limiti di naturale elasticità sottesi al concetto giuridico indeterminato, che l’Amministrazione è tenuta ad applicare e risulta in tutto o in parte inattendibile a cagione dell’errata applicazione dei criteri obbiettivi di accertamento e di valutazione, o a cagione dell’applicazione di criteri errati […]”27.
D’altronde, l’adesione a forme di sindacato intrinseco debole del G.A. è suffragata a fortiori dall’introduzione, nel processo amministrativo, della consulenza tecnica tra gli strumenti d’indagine volti ad acquisire elementi utili per la formazione della decisione (art. 67 c.p.a.).
Sarebbe auspicabile, allora, che i giudici amministrativi, invece d’imboccare il commodus discessus del richiamo (improprio) alla discrezionalità tecnica (non sindacabile se non negli angusti spazi di qualche figura sintomatica dell’eccesso di potere), facessero più spesso ricorso alla nomina del CTU, esercitando un controllo di tipo diretto (alla stregua di parametri interni e tecnici, e non solo esterni) del fatto opinabile, alla base delle determinazioni vincolistiche impugnate. Inoltre, vista la soggettività insita anche nell’opinio del più autorevole esperto, sarebbe forse buona prassi ascoltarne più d’uno e, sulla base di quanto (ancora una volta!) avviene nei fatti, cercare d’individuare dei criteri, che l’ esperto debba seguire nel compiere la sua valutazione, per agevolare, in sede giudiziaria, il confronto sulla fondatezza delle differenti opinioni espresse28.
5. Si è visto che ‘Arte’, ‘Patrimonio storico e artistico’, ‘Bene culturale’, sono concetti elastici, come d’altronde tutti gli altri oggetto di norme giuridiche, e come è fisiologico sia affinché tali norme non diventino immediatamente obsolete. Più degli altri, probabilmente, essi hanno un’ampia percentuale di flessibilità semantica rispetto al proprio nucleo fisso di significato: definirli una tantum sarebbe, impossibile e, prima ancora, controproducente ai fini della certezza del diritto. Ma, ciò che si sta chiedendo al legislatore e all’Amministrazione di riferimento non è il dare definizioni, bensì dare delle risposte concrete, dei criteri pratici, delle direttive di comportamento; e ciò implica innanzitutto fare una scelta. Non tra chi debba svolgere una certa competenza e come chiamare l’ente, ma a cosa, oggi, decidiamo dare la priorità. Vogliamo che le nostre splendide opere d’arte rimangano, tendenzialmente, entro i confini nazionali, anche se ciò può significare chiuderli in depositi o caveaux29? Oppure vogliamo essere più partecipativi al mercato dell’arte, necessariamente internazionale, “riquotando” così certe opere che possediamo, ma accettando, per alcune di esse, “l’uscita dal territorio nazionale e la conseguente impossibilità di tenere sotto controllo passaggi e trasferimenti”30? Opinione personale a parte, possiamo anche mostrarci cauti di fronte a un mercato globale, i cui indici esorbitanti di fatturazione crescono (guarda a caso!) in modo inversamente proporzionale agli indicatori di crisi economica, però, allora, più stringiamo le maglie dei confini nazionali, più bisogna valorizzare quello che si mantiene dentro, cercando di “riquotarlo” comunque. Se tratteniamo e non valorizziamo, non c’è più mercato dell’arte, per noi, Italia31!
Fatta la scelta, e stabiliti gli indirizzi, allora sì, il legislatore potrà valutare l’opportunità di una riforma delle strutture, ma (sempre!) sulla base di dati concreti, da acquisire prima di intervenire.
Se, ad esempio, venisse chiesto ai funzionari dell’Ufficio Esportazione come prendono le decisioni/ cosa concretamente potrebbe essere loro utile/ cosa è inutile; confrontando le proposte delle varie sedi, magari, si capirebbe come metterli nella situazione di poter lavorare bene (sottraendoli peraltro alle ire dei privati!); e i cittadini (e il sistema giudiziario), di poter controllare meglio.
Ci si potrebbe, sempre ad esempio, chiedere:
- sarebbe utile garantire l’accesso al sito di artprice ai funzionari dell’Ufficio Esportazione (considerato che: i) l’art. 68/3 impone loro di “accertare la congruità del valore venale” del bene indicato nella denuncia; ii) che tale sito web riporta le quotazioni dei singoli artisti sul mercato internazionale, in tempo reale; iii) per tal ragione, è di prassi strumento imprescindibile per chiunque operi nel mondo dell’arte; iv) il costo annuo dell’abbonamento è esiguo)?
- sarebbe utile dotarli di lampade di Wood?
- sarebbe utile prescrivere che la Commissione dei tre esperti dell’Ufficio Esportazione, chiamata a valutare il bene ai fini del rilascio dell’attestato di libera circolazione, fosse composta almeno da una persona effettivamente competente per quel determinato tipo di arte, che nel caso di specie le viene sottoposto? E ove tale requisito non sia soddisfatto, ricorrere obbligatoriamente all’autorevole opinione esterna di un esperto in materia?
- sarebbe utile prescrivere che i singoli esperti della suddetta Commissione ricevessero un’adeguata documentazione informativa sul bene – che nel loro turno di lavoro dovranno valutare – con anticipo (e ovviamente congruo!) rispetto alla data fissata per prenderne personalmente visione?
- anziché puntare il dito contro gli Uffici Esportazioni (come visto, nella pratica, spesso inutile e assai dispendioso!) non sarebbe invece più costruttivo, e giusto, colmare il vuoto normativo, iniziando col prescrivere quanto detto sopra? Come non accorgersi che la frustrazione dell’interesse privato (a verificare la bontà della valutazione degli Uffici) va di pari passo con il formarsi di prassi amministrative necessarie (perché suppletive di tale assenza normativa), ma non necessariamente ‘buone’?! Gli Artt. 24 e 97 Cost. devono trovare espletamento insieme, ed insieme essere posti come anello di raccordo del sistema di gestione dei beni culturali. Ciò, però, non lo può fare l’Ufficio Esportazione né le altre singole ‘parti’ di cui tale sistema è composto. Ecco perché far leva sul loro errato giudizio nel singolo caso concreto, non può essere la risposta al problema (ma, anzi, un ritorno al suo punto di partenza!).
Chi scrive, inoltre, non può che spezzare una lancia a favore della preparazione di alcuni funzionari pubblici, pensando alla diligenza che dimostrano nello svolgere le loro mansioni nonostante i molti cambiamenti, le risorse e risposte a volte scarne.
Con loro condivide la volontà e la fiducia che le cose possano migliorare.
Note:
[1] A. Manzoni, I Promessi Sposi.
[2] Sono le parole di Agnese a Renzo. A. Manzoni, I Promessi Sposi.
[3] Il Ministero per i beni culturali e per l’ambiente, successivamente denominato Ministero per i beni culturali e ambientali, viene istituito dalla l. 29 gennaio 1975, n. 5, che converte con modifiche il D.L. 14 dicembre 1974, n. 657. È solo premura precisare che il Diritto dei Beni Culturali nasce molto tempo prima dell’ istituzione del Ministero suddetto, dal momento che il ‘Codice Urbani’, attuale Codice dei beni culturali e del paesaggio emanato con il D.lgs. 42/2004, così come il precedente T.U. ‘Melandri’ 490/90 recepiscono nelle sue linee essenziali la ‘Legge Bottai’ 1089/39, che a sua volta si ispirava alla ‘Legge Rosadi’ 364/1909 e all’ ‘Editto Pacca’ del 1820.
[4] A. Ferretti, 2013. Sull’argomento cfr. C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, 2011; A. Crosetti, D. Vaiano, 2011;
G. Volpe Manuale di diritto dei beni culturali, 2013.
[5] Ad probationem, unicamente i fatti (i riferimenti normativi riportati, lungi purtroppo dall’essere gli unici emanati, sono quelli ritenuti più importanti ai fini della presente trattazione):
Il D.L. n. 657/1974, convertito in L. n. 5/1975, istituisce il Ministero per i beni culturali e per l’ambiente.
Il D.lgs. n. 368/1998 lo riforma, istituendo il Ministero per i beni e le attività culturali. Rilevano, tra gli altri, il D.lgs. n. 300/1999 e il D.P.R. n. 307/2001 che intervengono sull’ organizzazione degli uffici di diretta collaborazione del Ministro per i beni e le attività culturali e gli organi di funzione ausiliaria.
Il D.lgs. n. 3/2004 (regolamento di organizzazione: D.P.R. n. 173/2004) riorganizza il Ministero per i beni e le attività culturali. Elimina la figura del Segretario Generale (istituita nella riforma precedente) sostituendola con il modello per Dipartimenti.
Il D. lgs. n. 42/2004 emana l’attuale Codice dei beni Culturali e del Paesaggio.
Il D.L. 18 maggio 2006 n. 181, convertito in L. n. 233/2006, opera un nuovo riassetto organizzativo del MiBAC, disponendo la perdita delle funzioni, strutture e risorse in materia di sport in capo ad esso, e (a cambio!) gli trasferisce le strutture e risorse in tema di turismo: “il dato sconcertante (rileva G. Sciullo) è che il legislatore non ha previsto una esatta corrispondenza fra la funzione esercitata in materia di turismo e l’apparato di cui fa parte, in quanto la struttura del MiBAC in questo caso esercita una funzione (turismo) che non spetta al MiBAC ma ad un centro di imputazione esterna quale la Presidenza del Consiglio dei Ministri che pertanto ne assume la responsabilità ai sensi dell’art. 95 della Costituzione”. Il D.L. n. 262/2006, convertito in L. n. 286/2006, reintroduce il Segretario Generale e abolisce i Dipartimenti (!), allo scopo precipuo di ridurre la spesa pubblica (!!). Da notare: restano, però, in vigore le disposizioni del regolamento di organizzazione D.P.R. n. 173/2004, in quanto compatibili con l’articolazione del Ministero, fino al nuovo regolamento di organizzazione che arriva con il D.P.R. n. 233/2007, un anno dopo.
Il D.P.R. n. 91/2009 riorganizza il MiBAC.
Con L. n. 71/2013 il MiBAC diventa MiBACT: l’ufficio per le politiche del Turismo passa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.
Il D.P.C.M. n.171/2014 riorganizza il MiBACT.
La L. n. 125/2015 trasferisce le funzioni di tutela sui beni librari dalla competenza regionale (attribuita con D.P.R. n. 3/1972) a quella statale.
Il D.M. 23 gennaio 2016 n. 44 riorganizza il MIBACT.
[6] Bin, Pitruzzella, 2003: “La regola di coerenza, implicita nel principio di eguaglianza, potrebbe essere espressa così: il legislatore è libero di scegliere le finalità, il programma, il ‘principio’ da sviluppare con le sue disposizioni (purché non si scontri con altre norme costituzionali ‘sostanziali’, che sanciscono cioè libertà, diritti, ecc.); ma una volta che ha scelto il ‘principio’ deve svilupparlo con coerenza […]”.
[7] Definizione data alla voce: “Ragionevolezza delle leggi [principio di]”, Dizionario giuridico Simone.
Sul Principio di ragionevolezza cfr. per tutti: L. Paladin voce Ragionevolezza (principio di), in Enciclopedia del diritto, 1997.
[8] M. Cartabia, in particolare, il richiamo alla sent. Corte Cost. 130/1988 “Il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti”.
[9] Bin, Pitruzzella, 2003.
[10] Convegno “Tutela, conservazione e restauro. Quale futuro per il patrimonio librario e archivistico”, Auditorium Santa Margherita, Università Ca’ Foscari, Venezia, 6 maggio 2016.
[11] In rif. specifico ai beni librari, ad essere precisi, bisognerebbe rifarsi al Regolamento per l’esecuzione della L. Rosadi n. 364/1909 approvato con R.D. n. 363/1913.
[12] F. Lemme, 2006, con specifico riferimento agli Uffici esportazione in merito all’ attestato di libera circolazione, ma estendibile a tutti i “competenti organi del Ministero” chiamati alla verifica dell’interesse culturale ex. art. 12/2 Codice Urbani.
[13] TAR Lazio, Roma, II quater, 24 marzo 2011, n. 2659; TAR Liguria, 14 giugno 2005, n. 906.
[14] L’ estrema indeterminatezza della nozione di rarità si coglie a pieno nell’interpretazione della giurisprudenza amministrativa, secondo cui il concetto di rarità dell’opera non può essere considerato in termini strettamente numerici o di unicità dell’opera (Tar Lazio II quater n. 1786 del 2015; e Tar Lazio n. 5318 del 2011, la valutazione sulla rarità dell’ opera si fonda su un concetto di “utilità marginale” di un’unità aggiuntiva dell’opera rispetto a quelle già possedute – mutabile nel tempo a seconda delle esigenze di formazione culturale e delle politiche culturali di cui costituisce espressione, che possono giustificare l’ascrizione al patrimonio culturale nazionale anche dell’ennesimo dipinto di un Maestro già presente nelle collezioni pubbliche, ove l’organo consultivo competente ne ravvisi il particolare valore identitario).
[15] Va, anche, tenuto conto che l’unico strumento in mano al privato per ottenere un riesame nel merito del provvedimento emesso, è il ricorso gerarchico. Nei fatti, però esso può risultare una strada a difficile uscita, attesa la prassi frequente degli Organi di vertice (si noti: appartenenti alla stessa amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato) di non rispondere all’istanza del privato entro i novanta giorni previsti dall’art. 6 D.P.R. n.1199/1971, con la conseguente formazione di un ‘silenzio-rigetto’ (impugnabile a sua volta innanzi al TAR o al Presidente della Repubblica, con ricorso straordinario).
[16] Cfr. C. Marzuoli, 1985; PG. Ferri, 1987; B. Cavallo, 1993; F.S. Marini, 2002.
[17] Cfr. A. Catelani , S. Cattaneo, 2002.
[18] Il Legislatore del 2004 non si discosta molto dall’impianto originario della legge Bottai, ritardando così l’armonizzazione con la normativa UE e connotando la dichiarazione di culturalità di un elevato grado di discrezionalità. Per questo, gli operatori del mercato dell’arte si lamentano di un giudizio sostanzialmente rimesso all’arbitrio dell’Ufficio (cfr. nota 18). Per questo, autorevole dottrina considera che i collezionisti stranieri guardino con sfavore le nostre mostre ed esposizioni, mentre i collezionisti italiani scongiurino la iattura del cd. “embargo all’esportazione” (S. Morabito, “La notifica della dichiarazione di interesse culturale del bene”, 4 BusinessJus 21 (2012): una volta notificato, il bene di proprietà privata entra nel buco nero dei procedimenti amministrativi e può essere, secondo le norme vigenti, sottratto alla libertà negoziale anche per un tempo indefinito.
[19] Cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 22 aprile 2014, n. 2019; sez. VI, 3 luglio 2014, n. 3360; TAR Lazio – Roma, sez. II quater, 5 ottobre 2015, n. 11477; in termini, TAR Piemonte, sez. II, 9 maggio 2014 n. 821; TAR Abruzzo- Pescara, sez. I, 8 marzo 2012, n. 121.
[20] F. Lemme, 2015.
[21] Cons. di Stato, sez. VI, 3 gennaio 2000, n. 29, in Giorn. Dir. Amm., 2000, 6582 e ss., con nota di A. Sandulli, ”La comunicazione di avvio nei procedimenti di tutela del patrimonio storico-artistico”.
[22] Il riferimento è all’art. 42 Cost., all’art. 17 Carta di Nizza, all’art. 1 Protocollo addizionale n. 1 CEDU e ai pesanti limiti che lo status giuridico di bene culturale importa all’esercizio delle facoltà connesse al diritto dominicale, individuando in capo al privato una proprietà “conformata”, modellata dalla presenza dell’interesse pubblico tutelato all’art. 9 Cost. Cfr. F. Salva, Considerazioni su tecnica e interessi, in Dir. Pubblico, 2002, 2, 603 e ss.
[23] M. Ainis, 1991.
[24] V. Parisio, 2008, per la quale “la protezione dei beni culturali presuppone sempre la contestuale composizione dell’interesse pubblico alla conservazione con quello privato al pieno godimento del bene” (177), su tale presupposto il principio di proporzionalità è “il mezzo che, più di ogni altro, permette di sindacare l’esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione, in una prospettiva di analisi che tenga conto degli interessi in gioco” (p.187).
[25] Cfr. G. Ciaccardi,1996. Va da sé, a fortiori, la necessità (sul versante procedimentale) che il MiBACT si doti di parametri di valutazione uniformi, il più possibile certi e determinati, nonché tecniche di verifica dell’interesse culturale rigorose ed obiettive, per ridurre al minimo quel margine di opinabilità dei giudizi dati.
[26] Cfr. A. Rota, 2002.
[27] Così Cons. Stato, sez. VI, 11 marzo 2015, n. 1257; in termini, Cons. Stato, sez. VI, 23 aprile 2002, n. 2199, con nota di G. Scarselli e F. Fracchia; Cons. di Stato, sez. IV, 6 ottobre 2001, n. 5827, in Foro it., 2002, III, 414, con nota di E. Giardino; Cons. di Stato, sez. VI, 14 marzo 2000, n. 1348, in Giust. civ., 2000, I, 2169.
[28] B. Zagato, 2015: “[individuando tali criteri] In caso di lite saranno sempre il giudice o arbitro aditi a decidere sul caso concreto, ma in questo modo non dovranno brancolare nel vuoto per pervenire ad una decisione né essere loro stessi esperti d’arte, potendo effettuare una valutazione di elementi costanti; confrontandoli eventualmente con i corrispettivi di altra expertise rilasciata sulla stessa opera; disponendo, se opportuno, perizia per chiarire quegli stessi punti; e stabilendo infine, sulla base di essi (allora sí!), cosa ritenere piú rilevante ponendolo a fondamento della propria decisione”
[29] Va ricordato che a giustificare il trattenimento di un bene culturale all’interno del Paese può non essere la protezione dell’opera in sé considerata, quanto la possibilità – ipotetica ed astratta – di assicurarne in futuro la fruizione sul proprio territorio, nel caso di un eventuale, futuro intervento dello Stato volto all’acquisto di tale bene. Ciò potrebbe anche mai avverarsi; inoltre, seguendo questa logica, si potrebbe non far uscire nulla!
[30] Cfr. sent. Tar Lombardia, 29 gen. 2002 n. 345 sul contenuto del divieto di esportazione.
[31] Inoltre, incentivare la valorizzazione come sorta di contrappeso al trattenimento, implicherebbe agire ‘secondo proporzione’ nei confronti di quegli interessi privati, eventualmente entrati in gioco.
Il Giornale dell’Arte
ANNO XXXIII SETTEMBRE 2015 PUBBLICAZIONE ALLEMANDI
IL DIRITTO DELL’ARTE:
LIBERTA’ O ANARCHIA?
1. L’arte nell’ordinamento giuridico italiano: significato e confini dell’ art. 33 Cost._ 2. Crescita del mercato dell’arte e contestuale inesistenza di un Diritto dell’arte: risvolti problematici e necessità di regolamentazione (aspetto ”ontologico/interno” ed “esterno” del diritto dell’ arte)_ 3. Considerazioni conclusive.
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1. L’ arte è una delle più grandi espressioni democratiche di qualsiasi ordinamento civile. E arte significa libertá.
La tutela dell’arte è considerata principio fondamentale della nostra Costituzione e addirittura valore primario e supremo dell’ordinamento, da “non poter essere sovvertito o modificato nel suo contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale od altre leggi costituzionali” 1 . Anche a livello europeo viene proclamata diritto fondamentale ed inserita nell’ art. 13 della Carta dei diritti UE. Questo perché l’arte è forse lo strumento piú forte dato alle minoranze per esprimere il dissenso, a prescindere (da qui la sua eccezionalità) dalla forma di Governo esistente2: essa è e sarà sempre una porta verso il pluralismo.
A patto che sia arte, ovvero, a patto che sia libera.
“L’arte e la scienza [infatti] sono la libertà stessa nella sua forma piú alta, dire che arte e scienza sono libere è come dire che la libertà è libera”3: questo è il pensiero del Costituente, che non a caso le dedica all’art. 33 una tutela specifica e separata rispetto alle altre manifestazioni di pensiero. Suoi corollari sono gli artt. 21 e 9 Cost. rispetto ai quali si pone, secondo parte della dottrina, in rapporto di species a genus, o ritagliandosi un’ area propria, secondo altra dottrina. Vi sono infatti manifestazioni di pensiero ed espressioni di cultura che non sono arte, ma non è mai vero il contrario. L’epressione artistica, inoltre, non soggiace al limite del “buon costume”, che nel corso del tempo la giurisprudenza ha avvicinato sempre più al concetto di “oscenità” (misurato sul comune sentimento di pudore dell’ uomo medio 4) preferendolo a quello, piú ampio, di “morale sociale”. L’arte quindi può essere ed “usare dell’ osceno come di ogni altro mezzo espressivo, ed anzi esso, proprio nel suo carattere provocatorio, può talora risultare lo scopo essenziale di molta arte, in varie epoche posta in insanabile dissidio col proprio contesto sociale ed ideologico” 5: ma il carattere di artisticità renderà superflua ogni ulteriore indagine sull’ oscenità. Prova ne è l’art. 529 c.p.
Il cd. privilegio che le garantisce un ‘campo d’azione’ piú ampio rispetto alle altre manifestazioni di pensiero non significa che all’artista è riconosciuto il potere di fare ciò che vuole, bensí che alla sua libertà dovrebbe darsi il massimo espletamento possibile, rispetto ed in relazione agli altri diritti e libertà con cui essa inevitabilmente collimerà sul piano pratico 6, ammettendo, in sede di bilanciamento, che il giudice spinga questi ultimi agli ‘estremi’ (cioè comprimendoli fino al loro nucleo essenziale), ove ciò risulti necessario all’ espletamento della libertà dell’arte; facendola, infine, cedere solo di fronte a determinati altri valori, altrettanto supremi e primari, che ne rappresentino un prius logico7 . Ergo: diritto alla vita8 ; all’integritá psico fisica9 ; alla pari dignitá sociale e onore10 ; alla sicurezza ed incolumità pubblica11 ; alla tutela dei minori12 ; all’ordine pubblico13.
2. Quanto detto serve a delimitare il campo del diritto, affinché non invada quello dell’arte, snaturandone l’essenza. È la portata di quella libertà di cui ci parla l’art. 33, cosí cara al Costituente che ben conosceva gli effetti di un “arte” di Stato. Tale libertà fu strozzata, allora, attraverso un eccesso di disciplina con cui il legislatore la fece degenerare in propaganda. Ma anche una libertà priva completamente di regolamentazione che garantisca attuazione alla norma di principio con cui la si proclami, sfocerebbe all’ opposto in pura anarchia, travolgendola. Ed è quanto oggi avviene nel nostro ordinamento, accrescendo l’incertezza che regna sovrana a livello europeo ed internazionale nel mercato dell’arte.
Allo stato attuale della nostra legislazione non è stata ancora dettata alcuna disciplina specifica in materia, con conseguente assenza di strumenti capaci a dare chiarezza e certezza a tutti coloro, giudici compresi, che si trovino ad avere a che fare con l’arte. Da ciò si lasciano immaginare i potenziali (per non voler essere negativi!) abusi che ne possano scaturire e, di fronte alla considerazione che proprio oggi in un mondo inginocchiato dalla crisi economica quello dell’arte è uno dei mercati che muove piú denaro a livello globale14 , ci si chiede, ironicamente, come sia possibile.
L’arte ha bisogno che venga costruita una tutela giuridica attorno ad essa, informata al principio contenuto negli artt. 33 Cost. e 13 Carta dei diritti UE, e volta a disciplinare sia il momento, per cosí dire, iniziale dell’espressione artistica, legato cioè a quel facere creativo che sfocia in un bene (materiale o immateriale), divenendo opera d’arte (aspetto “ontologico o interno” del diritto dell’arte); sia il momento successivo alla sua produzione, che attiene invece alla sua tracciabilità, prova e commercio, strettamente legato al profilo economico dell’arte (aspetto “esterno” del diritto dell’arte). L’uno senza l’altro comportano il venir meno della tutela, essendo inscindibilmente connessi anche sul piano pratico (e ciò è ancor più vero oggi, se si pensa alla tendenza effimera, concettuale ed immateriale di certa arte contemporanea, che per dar prova della propria esistenza, e diventare quindi tutelabile, necessita di strumenti che ne garantiscano l’avvenuta realizzazione ed autenticità15 ).
Risvolti giuridici relativi al primo aspetto summenzionato possono essere sintetizzati con un pensiero di Pasolini, che intervistato nel ’73 dal Corriere della Sera, si fa interprete di un’ opinione condivisa da molti e denuncia l’ ordinamento italiano di porre l’artista nella tragica altrenativa di relizzare un’opera d’arte o finire in galera (ne fanno prova le sue innumerevoli chiamate a giudizio). A ciascuno di noi, infatti, viene garantito dalla Costituzione un diritto, fondamentale e supremo, però una volta che ci accingiamo a metterlo in pratica, possiamo non solo vedercene negare la tutela, ma, con quella stessa condotta attraverso cui credavamo estrinsecarlo, venire incriminati per la commissione di un reato. Si aggiunga che l’incerta tutela riconosciuta all’ opera d’arte, avvenga quasi sempre attraverso un giudizio ex opere operato, ossia a ‘prodotto ultimato’ senza tener conto invece dell’attivitá creativa che ha portato a quel risultato. Anche questa è una violazione della norma di principio, in quanto a ben vedere solo la tutela del facere artistico in fieri puó portare ad una effettiva tutela della libertá dell’arte (ad esempio in un’opera filmica o peformance). Bisognerebbe allora fare riferimento a delle linee guida capaci di rilevare la serietá intrinseca, professionalitá ed apprezzabilitá del livello tecnico dell’attivitá artistica, facendo sì che la sua tutela venga svincolata rispetto alla valutazione finale sull’ opera, potendo anche, quest’ultima, non risultare un capolavoro16.
Quanto al secondo aspetto, si rileva che in assenza di riferimenti normativi è la prassi a dettare le ‘regole del gioco’, con esiti difficilmente prevedibili e non sempre felici. Il mercato dell’arte si basa sul fatto che il valore di un’ opera è determinato dalla sua quotazione sul mercato, rilevabile in primis dal prezzo di vendita nelle case d’asta internazionali. Può oscillare nel tempo, a seconda dell’ offerta e richiesta di quel determinato artista (per questo si dice che è lo stesso mercato a stabilirlo). In tale ambito si inserisce l’ attvità di promozione svolta dai vari galleristi, musei, fondazioni, archivi, etc., che contribuiscono a incrementare o mantenere la notorietà di un artista: si potrebbe dire che essi intuiscano, indirizzandolo, l’ ‘appetito estetico’ della collettività. Quello che sta avvenendo ora, ed in modo sempre più sentito, è che nessuno di questi operatori acconsentirebbe a vendere, muovere, esporre, comprare un’opera d’arte se non provvista del suo certificato di autentica: senza alcuna legge che lo stabilisca e regolamenti, è diventato conditio sine qua non a garanzia del valore dell’ opera, al punto che di fatto tale valore dipenda più dal pezzo di autentica che dal suo pregio artistico. Quindi, per garantire sicurezza, si è costruito un meccanismo che ha finito col negare il suo scopo e creare ancora più incertezza, perché un’ expertise è sì capace di creare una situazione di certezza, ma solo fattuale e provvisoria, essendo spesso più vincolata alla persona che la emetta che non all’opera, e la sua opinione sarà confutabile con altra di segno opposto.
Origine e causa di entrambe le osservazioni è il fatto che il legislatore non sia ancora intervenuto. Ad oggi, in Italia:
I_non esistono norme che stabiliscano quali requisiti debba avere un’autentica di opera d’arte;
Prima la L. 1062/1971 (c.d. “legge Pieraccini”, inglobata nel CBC17) prevedeva un obbligo del venditore di consegnare al compratore un attestato di autenticitá, ora l’ art. 64 CBC dispone un obbligo di consegna della documentazione solo qualora disponibile18, ma “al di là della differenza terminologica delle due discipline, la legge non specifica esattamente quali requisiti formali la certificazione debba soddisfare”19 . Si domanda allora al legislatore: senza criteri da rispettare nella redazione di un certificato di autentica, considerato l’enorme impatto economico determinato dalle autentiche nel mercato dell’arte, come può garantire la tutela, delle opere d’arte e di chi opera nell’arte? L’ affidabilitá del documento e della persona/ente che lo emetta?
Chiaro è che individuare ex ante i requisiti formali di verifica riferiti ad un fenomeno che usa qualsiasi mezzo e forma per manifestarsi, non sia impresa facile: in ció probablimente risiede la difficoltá del legislatore, unita forse al timore di dettare una disciplina risultante troppo rigida o immediatamente obsoleta, inconciliabile con la libertá artistica. L’ arte opera in territori di confine, fatti di casi limite. Ma invece di rappresentare il tallone d’Achille di una sua possibile regolamentazione, tale caratteristica ne garantisce anzi la coerenza con l’ordinamento giuridico. Non si chiede, infatti, al legislatore di dettare delle regole che, ove seguite pedissequamente, approdino sempre ad un giudizio di veritá sull’ opera d’arte, quanto piuttosto di scegliere dei criteri idonei a rivelare il grado di affidabilitá del documento e della persona che lo emetta, secondo una valutazione di probabilitá; degli indici cui l’eperto debba attenersi nel rilasciare la sua expertise al fine di rendere trasparente a chiunque la sua preparazione e valutazione. In caso di lite saranno sempre il giudice o arbitro aditi a decidere sul caso concreto, ma in questo modo non dovranno brancolare nel vuoto per pervenire ad una decisione né essere loro stessi esperti d’arte, potendo effettuare una valutazione di elementi costanti; confrontandoli eventualmente con i corrispettivi di altra expertise rilasciata sulla stessa opera; disponendo, se opportuno, perizia per chiarire quegli stessi punti; e stabilendo infine, sulla base di essi (allora sí!), cosa ritenere piú rilevante ponendolo a fondamento della propria decisione. Utili in tal senso sono i resoconti dell’ Authentication in Art Congress che nel 2014 riunisce all’ Aia esperti da tutto il mondo proprio “[…] for the purpose of stablishing standard requirements in the market for reports of this nature […] facilitate the market’s good faith […], enable courts and judicial tribunals to assess the admissibility of expert reports under the applicable rules of evidence and law […]”. Al punto 3 si descrivono 9 criteria for expert opinions mettendo in luce le tecnologie che possono essere applicate ad un’opera d’arte e specificando che “if the witness’s methodology is based solely on observations, his or her methods of analysis may be deemed reliable only if the observations are based on relevant, extensive and specialized experience. Typically, experience-based observations without further explanation or preparation (such as recognition of the observation-only technique by others in the same field) are not generally acceptable”. Di modo che “conclusion based on the standard criteria – especially those which apply different acceptable, reliable methodologies but reach diametrically opposed opinions about the same painting – are inherently credible. With the same underlying structure, these differing opinions of observationalist vis-à-vis observationalist, scientist vis-à-vis scientist or observationalist vis-à-vis scientist can easily and effectively be compared so that stakeholders can best determine authenticity”.
Il legislatore potrebbe ad esempio iniziare con l’ identificare ed analizzare esaustivamente tutti i possibili strumenti tecnico-scientifici messi oggi a disposizione dalla ricerca tecnologica per l’analisi di un’opera d’arte. Capire con che margine di esattezza ciascuno sia affidabile: quanto più alto sarà tale margine, tanto più il legislatore dovrebbe prediligere il ricorso a tale strumento. In secondo luogo, l’esperto che non lo utilizzi o utilizzato, decida discostarsene, dovrebbe spiegare le ragioni della sua scelta, garantendo cosí sostanza e fondamento alla propria valutazione: pur restando un’ opinione essa verrebbe ancorata a dei criteri, e quindi risulterebbe più facilmente comprensibile, verificabile e confrontabile con altra data. Ove tale opinio non fosse basata su risultanze tecniche il legislatore potrebbe considerare rilevante il numero di pubblicazioni fatte da quel determinato esperto su quel determinato artista, arginando i casi denunciati nella prassi, di chi si autoproclami esperto di riferimento di un artista su cui poco è stato scritto, semplicemente acquisendone l’archivio, pubblicando un libro ed iniziando a catalogarne le opere.
II_chi la possa rilasciare e che peso attribuire al suo giudizio, tenuto anche conto che non esiste alcun albo professionale di periti esperti d’arte né ente chiamato a controllare la loro preparazione;
L’art. 64 CBC, unica norma a disporre sull’ “autenticitá” e “provenienza” delle opere d’arte, non dá alcuna indicazione su chi sia legittimato a rilasciare tali certificati, lasciando senza risposta l’inquietante quesito se possano farlo in via esclusiva i soggetti indicati dall’art. 20 e 23 LdA20 , facendo rientrare il diritto di autentica nel diritto morale d’autore (cosí Trib. Milano, sez. I, 1 lug. 2004), oppure chiunque in forza degli artt. 2222, 2230 c.c. e 21 Cost. (così Trib. Milano, sez. Spec. P.I., 13 dic. 2004). Sembra logico appoggiare la seconda ipotesi rischiando altrimenti di snaturare la ratio stessa dell’ art. 20 LdA, giustificativa dell’ attribuzione del diritto contenuto nell’art. 23 LdA. Infatti, nemmeno il diritto riconosciuto all’autore ancora in vita ex art. 20 LdA sembra essere esclusivo, dal momento che, in sede penale, la sua testimonianza sull’effettivo riconoscimento della paternitá dell’opera non avrá più peso di quella di qualsiasi altro testimone chiamato in giudizio ex art. 9 L. 1062/1971, che rimanda alla discrezionalità del giudice sia decidere se utilizzare la perizia artistica, sia se disporre la testimonianza dell’autore21. A fortiori non avrebbe allora senso avvalorare un’ attribuzione ope legis della qualitas di esperto d’arte in capo agli eredi, tenuto anche presente che spetta loro il cd. diritto di seguito22 ed altri interessi economici sulle opere del de cuius.
È sconcertante comunque realizzare che a prescindere da quale interpetazione si decida appoggiare, entrambe lascino aperta la possibilitá di rilasciare expertises a chiunque: anche a chi non sia effettivamente un esperto. Ed è quanto si dice avvenga spesso nella pratica, spiegando forse il perché in caso di lite il piú delle volte si preferisca non coinvolgere i periti o comporre la lite extragiudizialmente, svuotando di utilitá lo strumento della perizia in ambito artistico, generando essa piú confusione che chiarezza.
Affermare che l’ atto di autenticazione è un’ attività tecnica (expertise) e non l’ estrinsecazione del diritto d’autore, implica collocarla tra le manifestazioni di pensiero ex art. 21 Cost. qualificandola come “opinione”.
Questa considerazione non solo ammette, come detto, che potenzialmente chiunque possa rilasciare expertises (fermo restando il diritto di rivendicare o disconoscere la paternitá dell’opera ex art. 23 LdA e 20 LdA), ma che in sede giudiziale non si possa punire colui che l’ ha rilasciata se non per dolo o colpa grave. Inoltre non si vede su quali basi il giudice possa considerare tale opinione più ragionevole di un’altra data, e preferirla in sede decisionale, non essendo l’opinione ex se strumento di rilievo oggettivo idoneo a rimuovere la situazione di incertezza23.
Allo stato della nostra legislazione tale rilievo non puó che risultare esatto, in quanto seguendo il dettato normativo non si potrebbe pervenire ad altra soluzione: è inconfutabile che l’ atto di autentica sia giuridicamente sussumibile tra le opinioni, e dunque libere ed incoercibili. Altrettanto vera peró è la progressiva tendenza dell’ arte a trasformarsi “into an art market and now an art industry”24 in cui l’autentica opera come legge (a volte senza ragionevoli criteri). Per cui se oggi viene richiesto al critico di esporre sinteticamente le ragioni per le quali non ritenga l’opera autografa e considerato ció “elemento più che sufficiente per porlo al riparo da qualsiasi coercizione”25, l’errore non é imputabile a lui, ma all’inerzia o incapacitá del legislatore di ancorare la sua opinione a dei parametri legali cui fare riferimento per valutare l’ auctoritas di essa.
Sul profilo processuale ció porta a domandarsi se il legislatore si sia effettivamente interrogato sull’ eventuale bontá di un albo professionale di periti esperti d’arte, facendo sperare che l’assenza attuale di tale istituto sia frutto di una sua scelta e non dell’ impossibilitá logica di poterlo creare fintantoché manchino i parametri auspicati sopra. Certo è che la sua istituzione prevista dalla legge Pieraccini nel 1971 non ha mai trovato attuazione ed oggi non vi é alcun obbligo in Italia per il perito d’arte di iscriversi ad un albo professionale. Solo la Camera di Commercio ha istituito un proprio elenco di esperti d’arte, i cui requisiti d’accesso sono o la laurea tecnica in materia o lo svolgimento della professione di antiquario per tre anni, e sará la Camera stessa competente a valutare la documentazione presentata, o, se insufficiente, esaminare l’ interessato. In ogni caso tale iscrizione non è abilitativa né obbligatoria, ma ha solo fine di pubblicitá conoscitiva. Ancora una volta allora, chiunque puó potenzialmente autoqualificarsi critico ufficiale di un determinato artista!
III_non esistono criteri economici o scaglioni cui fare riferimento per calcolare il costo di un’ expertise; né sanzioni per chi, rilasciandola o meno, arrechi un danno economico al proprietario dell’opera (salvo il dolo o la colpa grave).
Ci sarebbero ancora tanti aspiranti esperti a voler rilasciare autentiche, se esse diventassero per legge gratuite o non così onerose come nella pratica si denuncia siano? E se l’esperto non venisse pagato in base alla singola autentica bensì mensilmente o forfettariamente, per il suo lavoro prestato nell’arco di un determinato periodo?
IV_anche le norme sulle Fondazioni o Archivi di artisti sono pressoché inesistenti.
La dicitura di “ufficialitá” che spesso accompagna il catalogo ragionato da loro redatto risulta piú una autoproclamazione de facto che de iure, non esistendo norma alcuna che attribuisca loro un diritto in via esclusiva sulla facoltà di autentica. La creazione di un catalogo che comprenda tutte le opere di un artista è infatti basata sul giudizio di autografia degli organizzatori dell’archivio e trattandosi di un’ opinione “quando gli ‘archivi’ pretendono di avere la parola definitiva sul corpus ufficiale delle opere dell’artista archiviato, usurpano una vera e propria funzione che la legge vigente non riconosce nemmeno all’artista vivente e, quindi, che tantomento può spettare a chi, eventualmente per diritto ereditario, si sia a lui sostituito nella titolaritá del c.d. diritto morale d’autore”26 . Nonostante ció, nel silenzio della legge, gli archivi detengono di fatto il potere di decidere le sorti di un’ opera d’arte, con statuizioni oltretutto inappellabili. Ad accrescere il paradosso, si aggiunga che, mancando un diritto di esclusiva, possono coesistere più archivi ‘ufficiali’ del medesimo artista. Per questo una disciplina sui requisiti, costituzione, funzionamento, controllo degli Archivi congiunta a quella di modalitá di rilascio delle autentiche, agevolerebbe in primis proprio gli Archivi stessi, o meglio quelli tra essi che operano in maniera seria nel mercato dell’arte, snellendo le continue liti giudiziarie dove li si accusa di abusi legati ad interessi economici nella valutazione delle opere d’arte27.
L’astensionismo del legislatore diventa ancor più incomprensibile se si pensa invece all’accurato intervento statale previsto nella disciplina di quei beni privati che egli stesso reputi di “interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante” o “eccezionale” (art. 10/3 CBC), che legittima fortissime interferenze e limitazioni al godimento della proprietá privata28. Rispetto a tale normativa, sorge naturale la curiositá di conoscere quali siano gli “indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione” sul bene, per stabilire quando esso risulti di interesse culturale per lo Stato (art. 12 CBC).
Ci si domanda: con che criteri lo Stato riesce a decidere quando un’opera d’arte risulti talmente importante da passare ad essere bene culturale, se non ha gli strumenti per decidere, a monte, quando un’opera sia arte e quale sia il suo valore effettivo (in base ad un giudizio di certezza o quantomeno probabilitá)?
Se esistono tali criteri, e sono improntati a valori di reale chiarezza, trasparenza, uniformitá e verificabilitá, perché non valutare se potrebbero essere applicabili anche alla “semplice” opera d’arte?
Per come stanno oggi le cose, lo Stato, ad esempio, non detta norme di tutela del proprietario, che acquistata un’ opera d’arte realizzata da più di 50 anni da artista defunto, se ne veda svuotare il valore perché sprovvisto di garanzia su di essa. Ma se al contrario egli sia così fortunato da non incorrere in contestazioni sul valore e autenticitá dell’opera, che addirittura viene dichiarata bene culturale, gli si applica una disciplina con cui si autorizza lo Stato alla supervisione di qualsiasi operazione egli compia sul bene. Nonostante ció trovi giustificazione, anche a livello europeo (art. 167 TFUE), dall’esigenza di tutelare il nostro immenso patrimonio culturale, non può non rilevare che “quadri di autori che potrebbero essere venduti a cifre assolutamente di rilievo, difficilmente escono dall’ Italia e dunque le loro quotazioni sul mercato italiano risultano strozzate rispetto a quelle estere”29 a scapito del proprietario. Ecco perché una maggiore chiarezza sui criteri di discernimento utilizzati dalle Soprintendenze sembra essere il minimo richiesto e dovuto.
3. Questi sono gli aspetti cui il legislatore non ha saputo ancora dare risposta, forse per il fatto che l’oggetto stesso da disciplinare sfugge a qualsiasi possibilitá classificatoria. Ma ció non può rappresentare un limite per costruire una tutela giuridica, dovendo casomai rappresentarne il punto di partenza.
L’arte spinge alla riflessione, alla creazione, alla trasgressione, ed è già sufficiente; forse null’altro che questo è l’ arte: uno stimolo, un’idea, un ideale. E il perseguirlo è la sua funzione. D’altronde, credere di essere finalmente riusciti a concettualizzarla vorrebbe dire non amarla, né averla capita, sarebbe come avere la pretesa di poter spiegare cosa sia la fede e cosa voglia dire credere. Ma così come si possono ricavare dei ‘dati comuni’ dal comportamento di un gruppo di fedeli praticanti, e partire da questi dati per cercare di regolare e disciplinare l’aspetto esteriore di tale comportamento, nel momento in cui esso interagisca con gli altri principi dell’ordinamento, allo stesso modo si può fare con l’arte.
Ed é questo che si chiede al diritto.
In un dibattito sulla libertà dell’arte tenutosi a Bolzano nel 2006 a seguito dell’ incriminazione ex art. 292 c.p dell’ opera Confine immaginato di Goldiechiari, alcuni ipotizzarono di considerare il museo quale zona franca, in cui non ci sia la legge dello Stato a comandare, dando così spazio incondizionato alla libertà dell’arte. Come si é giustamente obiettato in quell’occasione peró “la libertá dell’arte le deriva paradossalmente dai limiti che le sono imposti. L’arte sarà sempre un tentativo di andare oltre, di superare leggi e politica […], la creatività potrà esprimersi al meglio solo cercando di avversare i tentativi di bloccare questa ricerca”. La creazione artistica a ben vedere non è altro che una risposta a dei limiti, a dei confini soffocanti. Quindi, alla domanda provocatoria posta in quell’occasione da un politico, su come considearare arte la fotografia del cancello di Auschwitz se sopra capeggiasse l’aggettivo “bello”30, si portano ad esempio le tele di Zoran Music che, reduce dai campi di Dachau, disegna i cadaveri del lager per non farsi sfuggire, come egli stesso scrive, quella “tragica bellezza, […] la tragica eleganza di quegli esili corpi” accatastati l’uno sull’altro come un mucchio di bestie divorate dalla morte. O le parole del Nobel Imre Kertesz secondo cui “non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno”. E la stessa Etty Hillesum, morta proprio lí ad Auschwitz giovanissima, ci impone di rispondere a questo interrogativo con un sorriso, dal momento che quell’ immagine, come tutti i suoi scritti, così infinitamente dolci e atroci insieme, altro non sono che un messaggio d’amore senza limiti, amore per l’essere umano in quanto tale, che ci porta a poter dire “ti amo, anche te che non conoscevo, o che non conosceró mai, perché sei come me, perché sei uomo”.
Per cui che l’artista continui a fare la sua arte, e il giurista inizi finalmente a trovare delle soluzioni ai problemi che derivano da essa, solo non dimenticando che quando ci si relaziona con l’arte deve essere eliminato dalla propria mente qualsiasi preconcetto, qualsiasi pregiudizio, qualsiasi istinto di concettualizzazione e di ragionare per schemi; prima di dare una risposta.
Henri Matisse disse “l’opera d’arte è un terreno pericoloso dove è facile smarrirsi, ma se si è armati di energia e curiosità è possibile ‘conciliare l’inconciliabile’: questo è il ruolo dell’artista”31; e trattandosi di arte, forse vale anche per il giurista.
Note:
[1] Cfr. sentt. Corte. Cost. 1146/1988; 359/1985; 151/1986; 256/2004. In merito all’esistenza di una “gerarchia assiologica delle norme costituzionali” A. Pace in “Problematica delle libertá costituzionali”, Cedam, 2003.
[2] Esemplare in tal senso è la performace artistica realizzata dall’ artista cubana Tania Bruguera nel 2009 per la X Biennale d’ arte dell’Avana, in cui mette a disposizione un microfono e un minuto per chiunque tra la folla voglia dire qualcosa: qualsiasi cosa, senza filtri, senza propaganda, senza limitazioni. Ciò che non è ammesso come libera manifestazione di pensiero diventa lecito attraverso l’ espressione artistica. Ed ancor più significativo è l’intervento fugace di una ragazza che, preso il microfono, dice “semplicemente”: “que un dia la libertad de expresiòn en Cuba no sea un performance”. https://www.youtube.com/watch?v=B3KOV26APlM.
[3] Cfr. Intervento degli On. Rossi e Marchesi in Giur. Cost, 1976, I, 396 ss., lavori preparatori all’ art. 27.
[4] Cfr. Sent. Corte Cost. 9/1965; 120/1968; 49/1971; Cass. Pen. 78171/1985 e lavori preparatori alla Cost., seduta 25 gen. 1947 che in relazione al fenomeno artistico, identificano il concetto di buon costume ‘costituzionalistico’ con quello di ‘oscenitá’ ex 529 c.p., riferendolo strettamente alla verecondia sessuale e distinguendolo anche dalla ‘pubblica decenza’ ex art. 726 c.p. L’ interpretazione costituzionale prevalente, quindi, prende a riferimento la nozione più ristretta ‘penalistica’ di buon costume, considerando troppo ampia quella ‘civilistica’ richiamata dall’ art. 1343 c.c. come limite alla liceità di un atto negoziale e fatta coincidere con la ‘morale e coscienza etica’.
[5] F. Rimoli, in “La libertà dell’arte nell’ordinamento italiano”, Padova, 1992, 285 ss. e Cass. Pen. Sez. III, 29 gen. 1976; Cass. Pen. Sez. III, 15 feb. 1978; Cass. Pen. Sez. III, 20 feb. 1970 n. 391; Cass. Pen. Sez. III, 7 giu. 1984 n. 53084 (rapporto tra arte e oscenità).
[6] Sent. Corte Cost. 12 mar. 1976 n. 57, in riferimento agli artt. 2, 3, 9, 33, 42 Cost., “le libertá invocate, come tutti i diritti di libertá, nascono limitate, essendo il concetto di limite insito nel concetto di diritto come questa Corte ha affermato fin dalla sent. n. 1 del 1956, il che, appunto, sta a significare la possibilità della determinazione della sfera di azione dei vari soggetti entro condizioni tali che ne risultino garantiti i diritti altrui egualmente meritevoli di protezione costituzionale”.
[7] Tenendo sempre conto che il categorical balancing è comunque “provvisorio, modificabile e suscettibile di entrare in crisi in casi limite” infatti “anche quando la Corte fa riferimento ai principi supremi, non bisogna dimenticare che il contenuto di essi non è mai predeterminabile in astratto, essendo essi delineati volta per volta nel caso concreto” (R. Bin in “Diritti e argomenti, il bilanciamento degli interessi nella giurisrudenza costituzionale”, Giuffrè, Milano 1992).Sui limiti della libertá dell’arte cfr. F. Rimoli “La libertá dell’arte nell’ordinamento italiano”, Cedam, 1992.
[8] Sarebbe inammissibile ad esempio il film di un regista che per sensibilizzare sul tema dell’ eutanasia attiva mettesse in scena (causandola) la morte reale di qualcuno, anche se col di lui consenso ex art. 27/4 Cost. e 579 c.p.; diversamente, invece, se fosse l’artista stesso a togliersi la vita, peró non in nome della tutela dell’art. 33 Cost., bensí dell’art. 2 Cost. in base al quale non é imponibile un obbligo di vivere.
[9] L’ integritá psico fisica prevale rispetto alla libertá dell’arte, a nulla rilevando un giudizio artistico sull’opera prodotta ex artt. 32, 27/3 e 13/4 Cost., ma solo entro il limite della menomazione permanente propria o altrui ex art. 5 c.c. Su questa via si ammettono varie forme di Body art, come quelle praticate da G. Pane, M. Abramovic, V. Acconci e G. Brus. Rientra, poi, nella tutela della salute il diritto a non curarsi, che ammetterebbe forse la possibilitá di essere esplicato anche attraverso una performance artistica, cosí ad esempio un film sull’eutanasia passiva, in cui il regista o altra persona si lasci effettivamente morire in scena.
[10] Entrambi diritti inviolabili ex art. 2 Cost., fondamento dell’art. 3 Cost. La dignitá umana, cui si riferiscono anche l’ art. 36/1 e 41/2 Cost., permea di se tutta la Costituzione e viene attaccata “quando l’uomo concreto è degradato ad oggetto, a mero mezzo, a grandezza fungibile” (A. Pace in “Problematica delle libertá costituzionali”, Cedam, 2003). Essa marca la linea di confine per stabilire, ad esempio, la liceitá degli interventi possibili sul corpo umano per mano altrui. Potrebbe la libertá dell’arte spingersi fino al punto di utilizzare dei cadaveri a scopi artistici? Seguendo l’orientamento di Pace no, ma i fatti sembrano dare altra risposta. Dal 1997 la mostra Real Bodies sta girando tutto il mondo (in Italia nel 2014/15) con un successo di incassi e fama strepitosi per il suo ideatore, che grazie alla “plastinzione” è riuscito a trovare la forma di conservare eternamente i cadaveri e renderne ogni parte malleabile ed inodore. Le salme in esposizione, infatti, non sono rigidamente distese su un lettino anatomico, ma modellate come sculture in una determinata posizione, ad esempio sedute a giocare a scacchi o calciando un goal in rete. Vi è anche un cadavere che mentre cavalca un cavallo, (entrambi rigorosamente scuoiati) sfoggia nella mano un cervello umano come trofeo; un altro, dotato di ali, è stato appeso al soffitto e viene fatto girare come fosse un angelo; una donna, Maria, adagiata su un fianco che richiama la Paolina Borghese di Canova solo che è all’ ottavo mese di gravidanza con il ventre squartato in due e un feto curvato al suo interno; come lei, molti altri corpi in esposizione riprendono celebri opere d’arte. Questi aspetti e la chiusura temporanea della mostra a causa di 46 svenimenti in meno di 10 giorni (Jesolo, 7 gen. 2015) richiedono forse una riflessione in termini giuridici. È impossibile negare l’impatto educativo dato dalla visione di organi umani sani e malati; nervi, tessuti e muscoli che permettono il movimento; di farlo con cadaveri e feti piuttosto che copie; cosí come i meriti scientifici dell’ inventore della plastinazione. Altra cosa peró è essere artisti, fare arte e ottenere una maggiore tutela in nome di quell’arte. In base all’art. 33 Cost., la mostra Bodies deve essere conisderata lecita ma non perché arte, quanto piuttosto come scienza, anch’ essa “libera”. In tal caso peró non risulterebbero ammissibili per alcuna via, i tratti specificamente ed esclusivamente artistici di alcune salme: in esse non ci può essere artisticitá fine a se stessa, perché in un cadavere diventerebbe provocazione, e la scienza a differenza dell’arte non ha bisogno di provocare. (Tale interpretazione rispetterebbe anche la tutela del consenso alla plastinazione che pur non essendo oggetto di analisi in questa sede, si ricorda essere lecito solo ove dato “informato” e per “scopi scientifici” ex artt. 13 e 32/2 Cost.; 50 ss. c.p.; L. 145/2001; L.180/78; L. 833/78).
L’onore presuppone invece l’esistenza in vita del soggetto, ex artt. 594 ss. c.p. e se entra in contrasto con la manifestazione libera del pensiero, prevale quest’ultima, scriminata dall’art. 51 c.p., quando rispetta i criteri di continenza, interesse sociale (diritto di critica; Cass. Pen. 4938/2010 e 48712/2014) e veritá (diritto di cronaca; a partire dalla sent. Cass. Pen. 5259/1984). Più ampio ancora il diritto di satira, in cui “non entra in discorso solo la libertá di manifestazione ma anche quella di espressione culturale e artistica, ex artt. 9 e 33 Cost., ed ha il solo limite nel nesso di coerenza tra dimensione pubblica del soggetto e contenuto artistico espressivo” (Cass. pen 13563/1998; Trib. Civile Roma 1/3/92 Cassisi ed a. vs. Arbore ed a.; P. Roma 16/2/89 Vanzina vs. Videotime; P. Roma 5/6/91 Berlusconi vs. Espresso). Come l’arte, quindi, può portare alla ‘compressione estrema’ gli altri diritti fondamentali (ad es. la religione, come fece Charlie Hebdo) ridicolizzandoli senza mai sconfinare in disprezzo.
[11] Di fronte alla necessitá di contrastare la commissione di illeciti penali a danno della sicurezza ed incolumitá pubblica, la libertá dell’arte deve cedere: quanto detto per il singolo, vale a maggior ragione per la collettivitá. Peró una cosa sarebbe vietare una performance di artisti che con camice nere e fiaccole accese dirigono nella pubblica piazza operazioni di fuoco, altro è rimuovere un’ opera con su scritto “I Love communism” esposta in un contesto espositivo apposito (Museion), come inizialmente si fece a Bolzano nel 2006 con il cubo di Claire Fontaine, poi riammessa alla mostra. Altro esempio sono i Bambini impiccati di Cattelan, esposti, o meglio appesi ad un albero, in Piazza XXIV Maggio a Milano nel 2006, e successivamente trasferiti in luogo apposito dopo che uno spettatore rimase in fin di vita nel tentativo di toglierli, con approvazione di gran parte della comunitá. Eppure in questo caso non si trattava di salme, bensí manichini perfettamente identici al reale!! Ma la differenza rispetto a Bodies (che avrebbe dovuto rilevare sul piano giuridico) era altra, ossia il fatto che l’ installazione artistica avveniva “in luogo pubblico” e non “aperto al pubblico” senza aver posto alcun filtro tra fruizione e fruitore, eliminando ab origine la possibilitá di estrinsecare “l’aspetto negativo” (giustificativo dei requisiti richiesti dall’ art. 17 Cost. per la libertá di riunione e valevole qui per eadem ratio) della libertá dell’arte. Il contenuto particolarmente forte dei Bambini impiccati, diversamente dalle altre statue e monumenti pubblici, avrebbe richiesto la predisposizione di misure atte a segnalarne la visione, dando la possibilitá a chiunque di essere libero di o dal vederla, soprattutto quando quel chiunque fosse stato un bambino.
[12] Il “privilegio” riconosciuto alla libertá dell’arte viene meno di fronte alla tutela dei minori ex artt. 30 e 31 Cost., 529 c.p, confermato dalla l. 355/1975. Questo peró non deve portare alla preclusione totale di qualsiasi opera d’arte che si ritenga non conveniente per il minore, potendo procedersi per ‘gradi’, in cui il divieto assoluto rappresenta l’extrema ratio (in tal senso gli artt. 14, L.47/1948 e 5, L. 161/1962). Infatti, anche la visione di certe immagini contribuisce alla formazione educativa dei giovani: per questa ragione l’ intervento pubblico deve poi essere accompagnato da quello di genitori ed istruttori, affinchè diano al bambino le chiavi interpretative per leggere un nudo artistico, un’opera d’arte originale o anticonformista come strumenti per “sviluppare le sue facoltá, il suo giudizio personale, il suo senso di responsabilitá morale e sociale” senza rimanerne scioccato (art. 7, Dichiarazione dei diritti del fanciullo, 1959).
[13] Ordine pubblico inteso come “ordine democratico” che in riferimento all’ art. 656 c.p. la Corte Cost. aveva fatto prevalere sull’art. 21 (a partire dalla sent. 19/1962). Essendo peró concetto elastico e storicamente variabile, ove non si identifichi con la sicurezza ed incolumitá pubblica, non dovrebbe essere un limite alla libera manifestazione di pensiero (e quindi all’art 33 Cost.), “non perché l’ordine democratico non sia un valore essenzialissimo, ma perché il nostro sistema muove dall’ ipotesi che il libero dibattito non possa che giovare alla ricerca della veritá, anche politica e, dunque, mai possa essere dannoso per la democrazia. In tutto ció é insito un pericolo (la sallustiana ‘pericolosa libertas’); ma forse é maggiore il rischio di ‘perder l’anima’ negando il dissenso” (A. Cerri in Enciclopedia Giuridica alla voce “Ordine pubblico”).
[14] Non a caso il numero 22 della rivista “Sette” del Corriere della Sera (29 mag. 2015), viene dedicato proprio al mercato dell’arte, definito come “ il luogo virtuale dove sta nascendo la nuova aristocrazia planetaria del XXI secolo”. Si riporta infatti che lo scorso anno il fatturato di Christie’s e Sotheby’s è stato di 14, 4 miliardi di dollari: “una crescita vertiginosa rispetto ai 5, 9 del 2005. La primavera del 2015 era attesa con l’annuncio di un possibile tonfo. E invece […] le prime due settimane di maggio passate nella Grande Mela testimoniano qualcosa di impensabile. 2,6 miliardi di dollari incassati con una quindicina di aste”, (Paolo Manazza, “La nuova aristocrazia planetaria si incontra nelle gallerie d’arte e alle grandi aste”).
[15] Ad esempio i lavori immateriali con cui Yves Klein vende il “vuoto” di Parigi oppure la composizione 4’33’’ di Jhon Cage in cui “suona il silenzio”; le varie performance ed azioni artistiche. Cfr. anche A. Donati “Law and art: diritto civile ed arte contemporanea” che con specifico riferimento alla ‘reazione’ del diritto civile rispetto all’arte contemporanea concettuale afferma: “un’analisi della relazione tra arte contemporanea e diritto mostra, nel nostro sistema, una lacuna situata non a livello definitorio, ma a livello di concreta regolamentazione della trasferibilità e tutelabilità dell’opera d’arte contemporanea effimera, dovendosi fare i conti con un sistema di circolazione e tutela fondato sulla certa definibilità e sulla materialità – il manufatto – del bene da acquistare e proteggere”.
[16] In tal senso cfr. sent. Trib. Venezia, 23 nov. 1968, riguardante il film “Teorema” di P.Pasolini.
[17] Codice dei beni culturali e del paesaggio, cd. Codice Urbani, d. lgs. 42/2004 (e d. lgs. 156/2006 e 62/2008) che racchiude la precedente disciplina del T.U. del 1999 e della Legge Bottai 1089/1939);
[18] Art. 64 CBC: “Attestati di autenticità e di provenienza”. Chiunque esercita l’attività di vendita al pubblico, di esposizione a fini di commercio o di intermediazione finalizzata alla vendita di opere di pittura, di scultura, di grafica ovvero di oggetti d’ antichità o di interesse storico od archeologico, o comunque abitualmente vende le opere o gli oggetti medesimi, ha l’obbligo di consegnare all’acquirente la documentazione attestante l’autenticità o almeno la probabile attribuzione e la provenienza; ovvero, in mancanza, di rilasciare, con le modalità previste dalle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, una dichiarazione recante tutte le informazioni disponibili sull’autenticità o la probabile attribuzione e la provenienza. Tale dichiarazione, ove possibile in relazione alla natura dell’opera o dell’oggetto, e’ apposta su copia fotografica degli stessi.
[19] D. Jucker in Flash Art n. 276/2005.
[20] Legge 22 aprile 1941 n. 633, sulla “Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”.
[21] Caso De Chirico, Cass. Pen. 2765/1982. Cfr. G. Frezza nota a Trib. Roma 16 feb. 2010 n. 3425 “Opera d’arte e soggetti legittimati all’autenticazione”.
[22] Introdotto con la LdA ma rimasto senza concreta attuazione fino alla promulgazione del D.lgs. 118 del 13.2.2006 di attuazione della direttiva 2001/84/CE.
[23] Cosí F. Lemme in Il Giornale dell’arte feb. 2012 “A proposito delle azioni risarcitorie minacciate da critici e dissenzienti” e P. Carbone in News-Art “Il diritto di autentica nel merato dell’arte” sottolineano che non vige alcun obbligo in capo a critici e Fondazioni di certificare le opere, per cui ex art. 2236 c.c. se l’ opinione data rispetta il limite della cd. continenza e non sia viziata da dolo o colpa grave, non si potrá vantare nei loro confronti alcuna pretesa risarcitoria per eventuali danni economici anche gravi che ne siano derivati, ferma restando la facoltá del proprietario dell’opera di adire l’autoritá giudiziaria (sez. spec. P.I.I.) per un giudizio di accertamento sull’ attribuzione dell’opera de qua. E più che fondate sono le perplessitá espresse da F. Lemme sulla sent. Corte Ap. Milano dic. 2002 riguardante un’opera di Manzoni, che basa il giudizio di accertamento del diritto conteso sull’ opinione di un determinato critico a scapito di altra rilasciata da un critico diverso: “se Tizio esprime la sua opinione che un’opera d’arte sia o non sia autentica, non esistono criteri di privilegio (in particolare, la sua parentela con l’autore) che consentano di affermare o di escludere il fondamento di tale opinione”.
[24] Cfr. resoconti dell’ Authentication in Art Congress, Aia, 2014.
[25] F. Lemme “Il giornale dell’arte”, febbraio 2012.
[26] F. Lemme in il Giornale dell’arte “Tornando sul problema degli archivi dell’arte contemporanea”.
[27] Causa, ad esempio, del recente scioglimento dei comitati di autenticazione di Wharhol, Motherwell, Pollock, Lichtestein, Basquiat, Keith Haring, negli USA; mentre in Francia il rischio è di distruggere opere d’arte cui è stata denegata l’autentica (come l’attuale caso sul quadro di Chagall: M. Lang vs. Chagall Paris committee).
Rilevanti le proposte formulate nel Convegno tenutosi presso l’ Accademia Nazionale di San Luca (“Gli Archivi d’ arte contemporanea: quale legislazione e quale fututo?”, cfr. Gazzetta Ambiente, n. 5/2004) e le possibilitá offerte dalle nuove tecnologie nella catalogazione ed archiviazione di opere d’arte sottolineate durante la Seconda giornata d’incontro tra gli archivi di pittori e scultori italiani del XX secolo (24.05.2014, Milano).
[28] La disciplina italiana dei beni culturali abbraccia tutti i beni, sia pubblici che privati, ma ai fini di tale trattazione si pone particolare interesse sui secondi. I beni privati, vincolati o di “semplice” interesse culturale, possono fuoriuscire dal territorio italiano solo previa autorizzazione dello Stato. É infatti sua competenza decidere se rilasciare o meno l’ attestato di circolazione temporanea (artt. 66, 67, 71 CBC) o libera circolazione (art. 68 CBC) e licenza di esportazione (art. 74 CBC), gravando sul proprietario del bene l’obbligo di effettuarne comunicazione e richiesta. Inoltre le opere private dichiarate di interesse culturale non possono essere trasferite all’estero: in caso di vendita a cittadini stranieri (o altro atto di trasferimento a qualsiasi titolo della loro proprietà o detenzione) dovranno comunque rimanere nel territorio nazionale. Lo Stato quindi diventa il ‘diretto referente’ del proprietario per qualsiasi atto di protezione, conservazione, circolazione nazionale ed internazionale, valorizzazione del bene, in forza della normativa contenuta nel codice dei beni culturali e del paesaggio; Reg. CE 116/2009 modificativo del Reg. CEE 3911/92 e Reg. CEE 752/93 (e modifiche successive); Dir. 93/7/CEE; 167 TFUE.
[29] Ippolito Edmono Ferrario “Il libro nero del collezionismo d’arte”, Castelvecchi, 2011.
[30] Oltre a suggerirgli di entrare al Pompidou a vedere l’opera Him di Cattelan.
[31] “Henri Matisse: l’intervista perduta. Con Pierre Courthion”, 2015 Skira Editore.
La libertà dell’arte
LO STATO DELLA LIBERTÀ
DELL’ARTE ALLA LUCE DEI
PRINCIPI COSTITUZIONALI
E DELL’ UE
— Peculiarità del fenomeno artistico e tutela giuridica dell’ arte.
<< Arte e diritto. Qual’ è il loro punto di equilibrio? Quale dei due è in rapporto di continenza a contenuto? Fin dove può spingersi il diritto senza invadere il campo dell’arte e snaturarne l’essenza? E viceversa, qual’ è oggi lo stato della creazione artistica e i limiti oltre i quali l’ arte va a scontrarsi con il diritto? >>